Ne aveva combinate di tutti i colori. Truffe, furti, rapine, spaccio di stupefacenti, comportamenti osceni, persino omicidio accidentale. A trent’anni suonati pareva avviato a un lungo soggiorno dietro le sbarre, o alla meno peggio all’internamento forzato in ospedale psichiatrico ; il prevedibile destino di un balordo qualsiasi. Eppure, malgrado i trascorsi criminali, quest’uomo dall’esile corporatura e lo sguardo spiritato sarebbe divenuto uno dei più grandi artisti americani del ventesimo secolo.
William S. Burroughs, nato nel 1914 in una famiglia benestante di St. Louis, nello stato del Missouri, discendente nientemeno che dell’inventore della macchina addizionatrice, aveva tutte le carte in regola per accedere senza troppi sforzi alla classe dirigente. Studi presso scuole elitarie, laurea alla prestigiosissima università di Harvard, brevi passaggi all’università Columbia di New York e all’accademia di medicina di Vienna, una rendita famigliare tale da permettergli di scegliere a piacimento dove e come vivere… insomma al giovane rampollo della dinastia Burroughs la strada non si presentava certo in salita.
Tuttavia qualcosa in lui non andava, qualcosa lo rendeva inadatto alla comoda vita borghese in cui tanti al suo posto si sarebbero facilmente adagiati. Ansie, paure, angosce, allucinazioni che gli facevano credere alla presenza di strani animali sul muro della propria stanza : erano iniziate quando egli aveva appena quattro anni, e con il passare del tempo, oltre ad allontanarlo dalla compagnia dei suoi coetanei, avevano sviluppato in lui un acceso interesse per la magia, le pratiche occulte, il soprannaturale. Era stato un bambino solitario, un adolescente che invece di giocare a baseball o correre dietro alle ragazzine rimaneva nel suo cantuccio a leggere Charles Baudelaire o Oscar Wilde. Le emozioni, quelle forti, se le procurava introducendosi di nascosto in casa di estranei, senza tuttavia commettere furti, oppure gironzolando in campagna armato di fucile e sparando ai polli.
La rivelazione della sua omosessualità era giunta alle orecchie dei genitori quale l’ennesima birichinata del figliol prodigo, non abbastanza grave per scalfire la reputazione famigliare, ma quando nel 1939 egli si era spinto a recidersi una parte del mignolo sinistro per scimmiottare van Gogh e impressionare un amore non corrisposto, la situazione era divenuta preoccupante. I medici lo avevano classificato come schizofrenico paranoico, sicuramente inabile al servizio militare, e lui dalla natia St. Louis si era trasferito prima a Chicago poi a New York senza troppo sapere dove sbattere la testa : tra gli svariati mestieri che aveva esercitato, c’era addirittura quello di addetto alla disinfestazione.
Quest’epoca, coincidente con la fine della seconda guerra mondiale e il conseguente periodo di prosperità americana, era stata marcata da due eventi decisivi per la maturazione intellettuale e umana di William S. Burroughs. Da un lato l’inizio dello stretto legame con alcuni giovani scrittori ribelli che assieme a lui avrebbero formato il nucleo originario della Beat Generation, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Herbert Huncke e Lucien Carr. Dall’altro la scoperta del junk, la droga, e in particolare l’eroina, sostanza cui sarebbe stato dipendente per buona parte dei suoi giorni. Burroughs era un tossicomane, alleviava il peso dell’esistenza tramite la regolare assunzione di stupefacenti, e quando questi mancavano non si faceva scrupoli a commettere atti criminali per procurarseli al più presto.
L’irrinunciabile vizio non rappresentava per lui una scappatoia, un’evasione dalla noia, dalle convenzioni, dalla monotonia del quotidiano, oppure, peggio ancora, una fuga da se stesso, bensì un modo di stare al mondo, quasi una anti-disciplina di vita : influenzava i suoi gesti, i suoi gusti, i suoi pensieri, al punto da svolgere un ruolo fondamentale persino nella sua produzione artistica. Il suo primo romanzo pubblicato s’intitolava Junkie (distribuito in Italia come La scimmia sulla schiena) e trattava appunto di un uomo alle prese con la dipendenza da morfina ed eroina, ma a ben vedere tutti i lavori di William S. Burroughs avrebbero portato tracce più o meno evidenti di queste sostanze proibite.
Ma oltre alla droga, il ragazzo di St. Louis aveva un’altra passione altrettanto pericolosa – anche se per un americano, diciamocelo, la cosa non doveva risultare poi così scioccante. Le armi, Burroughs coltivava la passione delle armi, soprattutto quelle da fuoco. Per lui erano come un gioco, un semplice accessorio, non una minaccia, tanto che la sua estrema disinvoltura nel maneggiarle gli era costata l’incidente probabilmente più drammatico che lo aveva visto coinvolto.
La sera del 6 settembre 1951, nel corso di una festa a Città del Messico, ubriaco e stordito dalla benzedrina aveva tentato una stupidissima prodezza : centrare con un colpo di rivoltella un bicchiere da cocktail posato sulla testa della moglie Joan Vollmer. Volete mettere, per un patito di fucili e pistole, far rivivere la leggenda di Guglielmo Tell davanti a un pubblico euforico ? L’impresa purtroppo aveva fatto fiasco, e la donna si era beccata una pallottola in piena faccia : morta all’istante, tra i fumi dell’alcol e l’attonimento generale. Grazie all’intervento del fratello e i contatti altolocati della famiglia, Burroughs era riuscito a scampare al processo d’omicidio e riparare negli Stati Uniti, ma il ricordo di quella maledetta serata messicana l’avrebbe tormentato per sempre.
Pensate che anche a più di 30 anni di distanza, divenuto ormai uno degli intellettuali più influenti d’America in virtù del successo dei suoi libri, spesso invitato in televisione e alla radio per prendere la parola su molteplici argomenti, egli se ne usciva con una serie di dipinti che rievocavano lontanamente il triste episodio. Si chiamava Shotgun Art, l’arte con il fucile da caccia, e William S. Burroughs la realizzava tramite una tecnica da lui stesso ideata. Esasperando la lezione del pittore Jackson Pollock, il quale collocava le tele al suolo e vi lasciava sgocciolare sopra il colore, Burroughs metteva una bomboletta di vernice spray davanti a una tavola di compensato in posizione verticale, si allontanava di qualche passo, imbracciava il fucile, prendeva la mira e… fuoco !
Colpita dal proiettile, la bomboletta sotto pressione saltava per aria, esplodeva talmente forte che se ne trovavano i resti a parecchi metri di distanza, mentre sul pannello retrostante rimanevano imprevedibili schizzi di pittura, più ovviamente il foro della pallottola. L’operazione poteva essere ripetuta numerose volte con bombolette di diverso colore, al fine di tinteggiare una stessa tavola in maniera variegata ; in alcuni casi v’era pure l’aggiunta d’elementi supplementari come scritte, fotografie o ritagli di giornale. Raccontata così, me ne rendo conto, pare una trovata da baraccone, rustica quanto il tiro a segno del luna park e perfettamente in linea con il decennio che fondava il culto di Ronald Reagan e John Rambo, eppure l’artista e scrittore americano prendeva la Shotgun Art molto sul serio : su Youtube c’è addirittura un vecchio filmato prodotto in formato Super 8 che documenta l’originale performance.
Nella prateria del Kansas, in quello che pare il set di un film western in bianco e nero, si vede l’anziano signore vestito del suo abituale completo di giacca e cravatta sparare con un fucile a dei grandi bersagli slavati da lui lontani una decina di metri. Bum ! Bum ! Bum ! Yes Sir ! Terminati i tiri, tra le esclamazioni entusiastiche degli astanti, William S. Burroughs si avvicinava alle tavole crivellate di proiettili e constatava l’effetto ottenuto, una combinazione del tutto casuale di colori, violenza, distruzione, cinismo e sogno di morte : forse, nelle profondità del suo inconscio, l’espressione dell’incancellabile dolore giovanile, o forse l’ultimo delirio di una sensibilità ormai narcotizzata. Erano belli, quelli strani dipinti astratti ? No, non erano belli, come non erano belli i suoi romanzi e racconti zeppi di ferocia e oscenità, non era bella la merda ch’egli regolarmente s’iniettava nelle vene, non era bello il suo vivere irregolare e randagio ; niente in lui era bello. Ma l’arte, al pari di tutto il creato, è fatta anche di cose brutte.
Un antipatico comunque predestinato alla fama. La fama dei genio e sregolatezza? Forse più semplicemente la fama di colui che preso quotidianamente dai fantasmi della condanna di vivere, esternò nelle sue violente creazioni, il disperato bisogno di dare un senso (un senso che non possiamo comprendere) alla vita. Un privilegiato che fece della sua vita non un’opera d’arte, ma un’opera di angoscia esistenziale. Forse, fare un pò di volontariato, gli avrebbe giovato…