E lì si ritorna, e lì cade l’occhio, a quella stramba giornata dell’autunno 1963 nell’assolata California, all’epoca in cui Jack Kerouac non era ancora del tutto sfatto dall’alcol e i Beach Boys cavalcavano l’onda del successo con il loro Surfin’ USA. Il baricentro dell’arte contemporanea si era da poco spostato da Parigi a New York, culla dell’espressionismo astratto e della nascente pop art, ma anche Los Angeles, la città sulla costa opposta, la città rivale, stava pian piano costruendosi una propria identità artistica. Fuori da Hollywood, fuori dai grandi baracconi cinematografici che sfornavano regolarmente campioni da botteghino, gironzolavano già da qualche tempo musicisti di jazz, scrittori squattrinati in cerca d’ispirazione e un eccentrico pittore con il pallino dei colori eclatanti e i tuffi in piscina, l’inglese David Hockney.
Sebbene non esistesse, a Los Angeles, un gruppo d’artisti d’avanguardia con uno stile o una linea tematica comune, insomma ciò che si chiama una “scuola”, dal 1957 a meno di un chilometro dalla mitica Sunset Boulevard c’era un luogo che riuniva la produzione artistica locale : fondata dal giovane curatore Walter Hopps, sua moglie Shirley e lo scultore Edward Kienholz, la Ferus Gallery esponeva i lavori di pittori e talenti creativi della costa occidentale degli Stati Uniti e anche qualche opera in arrivo dalla Grande Mela. E nel via vai d’artisti e intellettuali attorno alla galleria, tra feste, vernissage e concerti, si era infilata una ragazza poco più che adolescente, figlia di un violinista sotto contratto della 20th Century Studios e futura scrittrice di talento : a vent’anni non ancora compiuti Eve Babitz si muoveva senza tante inibizioni tra questi uomini più grandi di lei, al punto da diventare l’amante segreta dello stesso Walter Hopps. Lui, Hopps, riusciva a tenere il piede in due scarpe grazie a una tecnica a lungo rodata, quella d’evitare il più possibile la propria amichetta nei luoghi pubblici. A destabilizzare l’allegro triangolo, pensate, non fu una qualunque banalità, una traccia di rossetto sul colletto della camicia o una lettera galeotta,
ma uno degli episodi più stuzzicanti della storia dell’arte contemporanea, peraltro immortalato da una celebre fotografia. E qui, appunto, torniamo a quella stramba giornata dell’autunno 1963.
Hopps era da poco stato assunto dal Museo d’arte di Pasadena, un comune nella contea di Los Angeles, e stava lavorando a un ambizioso programma di mostre ; aveva infatti l’intenzione d’inserire in cartellone nomi importanti, personaggi di rinomanza internazionale che dessero lustro a una realtà culturale ancora considerata marginale. Grazie allora ai suoi numerosi contatti, nonché alla sua diabolica parlantina, era riuscito a organizzare la prima retrospettiva americana di uno dei più grandi artisti viventi, il francese con passaporto statunitense Marcel Duchamp. Per Duchamp, all’epoca ultrasettantenne e ritiratosi dalle scene da un bel pezzo, la mostra significava il ritorno alla ribalta : lui, l’uomo che aveva attraversato dadaismo, cubismo e surrealismo senza mai rinunciare alla propria indipendenza, inventore del concetto di ready-made e ispiratore di moltissimi altri artisti e correnti creative, veniva presentato al pubblico californiano in un percorso espositivo includente oltre 100 sue opere.
L’inaugurazione della mostra, prevista una giornata d’inizio ottobre, era quindi un evento da non perdere, soprattutto per un peperino come Eve Babitz attirato dalle mondanità quale un orso con il miele. Peccato però che Walter Hopps la pensasse diversamente : quella settimana sua moglie si trovava in città, vietatissimo dunque prendere il rischio di far incontrare le due donne in un luogo in cui fosse anche lui presente. L’uomo si guardò bene dall’invitare la giovanissima amante al cocktail d’apertura, ma per sua sfortuna la notizia arrivò presto alle orecchie di lei ; e a quel punto lo sventurato marpione dovette fare i conti con la vendicativa furberia femminile. La Babitz si presentò lo stesso al ricevimento, e lì, ingollato qualche bicchiere di vino, cogitò in combutta con l’amico fotografo Julian Wasser la sua implacabile ripicca. Tirando dentro, figuratevi, persino l’anziano Marcel Duchamp.
L’idea a ben guardare non venne alla Babitz bensì a Wasser, quando vide l’artista e il curatore della mostra impegnati in un’attività apparentemente poco in linea con un rinfresco dell’alta società. Tra la calca d’invitati in smoking e abito da sera, bottiglie di champagne piroettanti a destra e a manca e musica dal vivo, i due uomini si erano ritagliati un piccolo spazio dove fare una partita a scacchi. La passione di Duchamp per gli scacchi era risaputa e di vecchia data, proporgli una sfida aveva quindi per Walter Hopps valore di cortesia : l’anfitrione che assecondava i gusti dell’ospite. Julian Wasser tuttavia scorse in quella piccola eccentricità una grande occasione : perché non ti fotografo nuda, domandò divertito alla ragazza, intanto che giochi a scacchi con Marcel Duchamp ? Al fotografo non poteva venire pensata migliore.

Julian Wasser
1963. Fotografia
L’indomani mattina presto, prima che il museo fosse aperto al pubblico, Julian Wasser ed Eve Babitz ritrovarono l’artista negli spazi espositivi, e davanti ai tecnici e agli operai ancora occupati a terminare l’allestimento la ragazza si spogliò nuda e si accomodò a un tavolo con scacchiera. Tra lei e Duchamp non ci fu partita : troppo facile, per l’anziano francese, battere la giovane americana. Ma mentre l’artista divorava pedone su pedone, alfiere su alfiere, regina su regina, mentre i due si distraevano dal gioco chiacchierando della loro vita, la macchina fotografica di Wasser catturava la scena da diverse angolazioni. E fra i tanti scatti, la Babitz ne scelse uno, quello che appunto passerà alla storia.
Sviluppata in bianco e nero, la foto ritrae le due figure di profilo, lei totalmente svestita, con le tette grosse e penzolanti come dei palloni da football americano, e lui in giacca scura, pantaloni scuri, scarpe scure e montatura degli occhiali scura – solo i capelli, un tempo scuri, mostrano delle ciocche brizzolate. Era l’illustrazione del paradosso, l’immagine dei tanti contrasti : quello tra gioventù e vecchiaia, tra presente e passato, tra pudicizia e nudità, tra azione e contemplazione, il contrasto tra esibizionismo e desiderio d’anonimato, dato che della ragazza si vede la silhouette integrale eppure il volto resta coperto dal caschetto. Ma a conferire alla situazione una marcia in più, a renderla del tutto straniante, ci pensava l’espressione calma e concentrata di Marcel Duchamp. Poco importava cosa avvenisse attorno, poco importavano le forme fresche e gustosissime di Eve Babitz offerte su un piatto d’argento : egli non si scomponeva, osservava attentamente la scacchiera e si approntava a fare la prossima mossa. Insomma la trovata e la manodopera erano di Julian Wasser, la Babitz ci aveva messo il fisico, ma ancora una volta, senza neanche volerlo, era lui, l’anziano maestro, che faceva della fotografia una grande opera d’arte.
We can do it! Tangibile prova di arte e disibinizione…