Mario Sironi, pittore della solitudine

Ed eccomi qui, eccomi di nuovo qui a scrivere sul blog. Dopo l’intervallo estivo, periodo in cui confesso di essermela presa comoda – in altre faccende affaccendato – eccomi che torno ad arricchire di pensieri e parole la mia piccola valigia dell’artista. Eccomi che torno a raccontarvi l’arte moderna e contemporanea condendo il discorso di considerazioni personali e qualche digressione fantasiosa.

Autoritratto
Mario Sironi
1904. Carboncino su carta

L’ispirazione per il primo articolo della rentrée, come si dice in francese, mi è stata fornita da una mostra che ho visitato a metà agosto, quando di ritorno da dieci giorni sulla costa ligure ho trascorso un weekend a Milano. Nella città svuotata dall’abituale folla di gente che si affretta al lavoro, placato il turbinio di macchine e camion che quotidianamente intasano la tangenziale, messa in pausa l’inarrestabile corsa al successo del capoluogo lombardo, io mi recavo al Museo del Novecento di Piazza del Duomo per scoprire la retrospettiva su Mario Sironi. E pensandoci adesso, ripercorrendo nella memoria quei desolati paesaggi dipinti, non avrei potuto scegliere momento più opportuno : perché Sironi è proprio questo, un artista della solitudine, cantore della malinconia, artefice e vittima delle grandi speranze e delle amare disillusioni che attraversarono la prima metà del ventesimo secolo italiano.

Nato a Sassari nel 1885 in una famiglia benestante – padre ingegnere milanese e madre cantante lirica fiorentina – Mario Sironi si trasferisce giovanissimo a Roma e lì riceve la tipica educazione borghese dell’epoca. Frequenta la scuola elementare, poi l’istituto tecnico, ma nel frattempo completa la propria formazione con attività culturali di varia natura : legge gli autori allora in voga, Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche in testa, suona il pianoforte, visita esposizioni d’arte e soprattutto disegna, disegna molto, ore e ore al tavolino intanto che gli altri ragazzi s’intrattengono con svaghi più futili. A influenzarlo, ancora adolescente, sono le illustrazioni dei britannici Aubrey Beardsley e William Morris, i maestosi paesaggi montani ritratti da Giovanni Segantini, le stampe artistiche giapponesi di Kitagawa Utamaro. Quando perciò all’alba della maturità viene messo davanti alla fatidica scelta del che cosa fare da grande, lui, dopo un anno alla facoltà d’ingegneria marcato da una crisi depressiva, decide di prendere uno dei maggiori rischi che possa tentare un giovane sognatore : lui decide di dedicarsi alla pittura.

La madre che cuce
Mario Sironi
1905-1906. Olio su tela

Iscrittosi alla Scuola Libera del Nudo di via Ripetta, ente collegato all’Accademia di belle arti di Roma, stringe legami con altri pittori rampanti, tra i suoi amici e sodali ci sono Cipriano Oppo, Antonio Discovolo, Vincenzo Costantini e soprattutto Umberto Boccioni e Gino Severini, grazie ai quali viene introdotto nello studio di Giacomo Balla. È infatti da lui, da Balla, che l’artista in erba apprende la tecnica pittorica divisionista, variante italiana del puntinismo francese, perfettamente impiegata nel suo dipinto La madre che cuce realizzato tra il 1905 e il 1906. Fin dai primi anni d’attività creativa, Mario Sironi manifesta un tratto di carattere che lo accompagnerà per tutta la vita : l’apertura al nuovo, la curiosità verso fenomeni artistici nascenti, il desiderio di aggiornare costantemente le cose passate – e questo, badate, anche quando si tratterà di aggiornare la propria stessa arte.

Testa
Mario Sironi
1913. Olio su tela

Poco più che ventenne viaggia a Parigi, poi in Germania, e nel mentre continua la ricerca di uno stile che corrisponda alla sua personalità complessa e travagliata. E se abbandona in fretta il divisionismo, forse troppo limitativo per il suo gusto improntato invece a una forte razionalità volumetrica, nel 1913 aderisce al movimento artistico italiano allora in maggiore fermento, il Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. Non è uno dei futuristi della prima ora, Sironi, eppure le sue pennellate si adeguano presto alla velocità, alla dissacrazione formale, all’avanguardismo di concezione marinettiana, e le sue idee politiche paiono andare di pari passo : allorché nel maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Impero austro-ungarico, egli si arruola con entusiasmo nel Battaglione Volontari Ciclisti al fianco di Umberto Boccioni, Achille Funi e altri artisti della stessa corrente.

L’esperienza bellica è per lui traumatica, la morte al fronte dell’amico Boccioni gli provoca un intensissimo dolore, ma questi anni difficili sanciscono anche l’inizio del suo lungo rapporto con Margherita Sarfatti, intellettuale e critica d’arte che avrà un ruolo decisivo nella sua affermazione. Grazie infatti alla frequentazione del salotto milanese della Sarfatti, e agli importanti contatti che ne derivano, nel primo dopoguerra Mario Sironi guadagna visibilità nel panorama culturale nazionale, e la sua immagine diviene sempre più quella dell’artista engagé, l’artista implicato nella realtà civile del proprio Paese. Impossibile, per lui, di nascondere le convinzioni che lo animano : nel 1919 partecipa all’ascesa del fascismo, mentre nel 1921 inizia a collaborare in qualità d’illustratore per Il Popolo d’Italia, quotidiano d’ispirazione nazionalista fondato dallo stesso Benito Mussolini.

Paesaggio urbano con camion
Mario Sironi
1920. Olio su tela

Ci crede, Sironi, crede all’ideologia fascista, crede non tanto alle teorie raziali quanto al pensiero sociale e antiborghese di matrice mussoliniana. Se però si escludono le vignette e le illustrazioni destinate a organi di stampa militante, la sua produzione artistica non scadrà mai nella mera propaganda di regime. Lui ha un animo troppo mesto, ha una visione dell’esistenza troppo cruda per allineare la propria pittura ai toni accesi e trionfalistici tipici del ventennio. In questo periodo, tuttavia, ormai trasferitosi stabilmente a Milano e fattosi promotore del movimento artistico del Novecento, egli realizza alcuni dei dipinti più rappresentativi della propria individualità. Abbandonati infatti gli stilemi e i dettami futuristici, Sironi predica un ritorno all’ordine, un ritorno a forme pure, armoniose, riconsidera l’antichità classica come modello cui guardare.

Il molo (Cavallo bianco e molo)
Mario Sironi
1921. Olio su tela

Ecco allora che il soggetto preferito dei suoi dipinti diviene qualcosa di molto diverso dai temi trattati in precedenza, qualcosa che vuole piuttosto rifarsi alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà scoperta sulla rivista Valori Plastici ; l’artista raffigura la città, raffigura Milano, ma spogliandola dell’alone mitico con cui la comunicazione più superficiale tenta spesso di travestirla. Insomma niente immagini da cartolina o facili tributi alla proverbiale operosità meneghina : i suoi Paesaggi urbani ritraggono quartieri di periferia, strade deserte, personaggi insignificanti, edifici che sembrano vecchi scatoloni di cartone ingigantiti.

Il pescivendolo
Mario Sironi
1925. Olio su tela

Questi luoghi grigi, spogli, silenziosi, marginali rispetto al fasto della propaganda, sono il misero retroscena del grande sviluppo industriale, ma fanno anche da specchio all’intimità del pittore. Perché malgrado la riuscita professionale, le mostre in Italia e all’estero, i premi e le commissioni pubbliche, Mario Sironi resta un uomo fragile, dall’umore altalenante, frequentemente preda della depressione. Mentre realizza opere monumentali per conto del regime, affreschi e mosaici in palazzi governativi, non cessa di mettere in discussione il sistema dell’arte, non cessa di mettere in discussione se stesso, talvolta al punto da indispettire gli intellettuali fascisti più insofferenti alle critiche.

Quando poi nel 1943 la dittatura è agli sgoccioli e l’Italia sconvolta dalla guerra civile, l’artista esprime la propria disperazione in quadri che rappresentano cumuli di macerie e città abbandonate : potenti metafore dei suoi ideali delusi, delle sue ambizioni frustrate. Fedele alla Repubblica di Salò e catturato da una brigata partigiana, il 25 aprile 1945 scampa alla fucilazione grazie all’intervento dello scrittore Gianni Rodari, ma la morte ha ormai iniziato a covargli nell’anima. Tre anni dopo, nel 1948, piange il suicidio di Rossana, la figlia diciottenne avuta dalla prima moglie Matilde Fabbrini, mentre il vuoto che gli si è creato attorno a causa della sua adesione al governo fascista lo precipita in una profonda solitudine, sentimento che lui illustra nei dipinti ancor più cupi. Alla sua scomparsa, avvenuta nell’agosto del 1961 per via di una broncopolmonite, sul cavalletto che utilizzava per lavorare viene trovato il ritratto di una squallida veduta urbana : L’ultimo quadro è scritto sul retro del telaio, come se per lui, per Sironi, arte e vita fossero la stessa cosa.

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Una risposta a "Mario Sironi, pittore della solitudine"

  1. Probabilmente per un’artista arte e vita sono la stessa cosa, gli esempi sono molteplici: Dalì surrealista come i suoi dipinti, Picasso prepotente e geniale nell’arte e nella vita, Van Gogh ipersensibile e incompreso nell’esplosione di stelle e girasoli inquietanti, Sironi melanconico e minimalista sul palcoscenico della propria esistenza…

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