La storia dell’arte è zeppa di re Mida, ossia persone dotate della straordinaria capacità di trasformare in metallo prezioso qualsiasi cosa tocchino o abbiano un tempo toccato. Basta il loro nome, meglio se autenticato da una firma, a fare della trovata più banale, dell’oggetto più sgraziato, un manufatto da collezione. Se poi vogliamo eleggere un campione tra questi artisti dalle uova d’oro, impossibile non pensare al pittore olandese Vincent van Gogh.
Un paio di anni fa, ricordo, scrivevo della vendita all’asta della rivoltella con cui egli molto probabilmente si procurò la morte, mentre risale al 2014 il curioso esperimento di ricostruzione artificiale del suo celebre orecchio mozzato. Stavolta però niente stramberie, stavolta è il turno di qualcosa di meno eccentrico, qualcosa che di van Gogh porta tracce concrete, indubitabili, reali : si tratta infatti di un segnalibro che l’artista decorò con delle illustrazioni a matita all’epoca in cui si stava ancora allenando al disegno, e che oggi si trova temporaneamente esposto presso il Van Gogh Museum nella città di Amsterdam. A caricare di fascino questo piccolo ritaglio di carta, tuttavia, non è tanto la sua qualità artistica, oppure l’ennesimo prezzo astronomico che ricchi collezionisti sarebbero disposti a pagare pur di averlo, quanto la storia che gli sta dietro. Una storia di amicizia, arte e grandi speranze : insomma una storia dal sapore molto vangoghiano.
Nel 1881 il giovane Vincent aveva ventotto anni e le idee non troppo chiare sul proprio avvenire. Dopo l’esperienza fallimentare come venditore presso la prestigiosa casa d’arte Goupil e un periodo ramingo tra Amsterdam, Bruxelles e la regione carbonifera del Borinage, dove aveva tentato di canalizzare la propria intensissima vocazione religiosa nel mestiere di predicatore, egli era tornato a vivere con i genitori a Etten, villaggio olandese poco distante dal confine belga, e qui aveva deciso di dedicarsi a fondo alla pittura.
Fin da ragazzino, infatti, fin dal tempo della scuola secondaria coltivava la passione pittorica, ma più come un passatempo intellettuale, un puro svago, che quale un impegno da condurre in maniera metodica e studiata. Erano state le sollecitazioni del fratello minore Théo, nonché il bisogno di sfogare in un modo o nell’altro l’inguaribile malinconia, a persuaderlo pian piano del bene che avrebbe potuto fare a se stesso e agli altri attraverso la pratica artistica. Perché lui, uomo notoriamente infelice, cercava in qualsiasi attività intrapresa con costanza uno scopo superiore, una spinta morale, una ragione quasi a carattere mistico ; il far soldi, a dispetto delle attuali quotazioni delle sue opere, era l’ultima cosa cui aspirava. E così, nella profonda campagna olandese, trascorreva le giornate disegnando, dipingendo e tenendo un’accesa corrispondenza epistolare con altri artisti incontrati in occasione di precedenti viaggi o trasferte lavorative.
Nella notevole mole di schizzi, bozze e lavori con cui esercitava il proprio estro e la propria mano, c’era poi un segnalibro che egli aveva utilizzato come supporto per dei disegni a matita. Questi, poco elaborati ma indicativi comunque di una discreta padronanza tecnica, rappresentavano personaggi umili, ambienti frugali, scene di vita agreste plausibilmente ispirate alla quotidianità dell’artista. Forse per un semplice caso, o forse per precisa intenzione, il segnalibro in questione era venuto a trovarsi in un volume che nel 1883 Vincent van Gogh aveva spedito in regalo a un amico pittore, il connazionale e quasi coetaneo Anthon van Rappard. Il romanzo illustrato Storia di un contadino degli scrittori alsaziani Emile Erckmann e Alexandre Chatrian trattava della Rivoluzione francese osservata dal punto di vista di un uomo di campagna, e inviandolo a van Rappard è probabile che van Gogh intendesse comunicargli indirettamente la propria visione del mondo, la propria spiccata sensibilità per la condizione delle persone più povere, i bisognosi, i malati, gli esclusi dal benessere prodotto dalla spietata società industriale.
Il duplice dono era stato molto apprezzato da van Rappard, e i due amici si erano ritrovati poco tempo dopo nella cittadina di Nuenen, dove l’altro si era frattanto trasferito con la famiglia. Peccato però che con Vincent van Gogh, testa sempre più matta, intrattenere un rapporto sereno e duraturo fosse impresa assai difficile ; era dunque bastato un commento poco lusinghiero di Anthon van Rappard a proposito di una litografia tratta dal celebre dipinto vangoghiano I mangiatori di patate per rompere la fragile armonia e separare i due uomini definitivamente. In questo caso, tuttavia, nessun orecchio era finito mozzato : a fare le spese dell’ira di van Gogh era stato semmai un suo ritratto dell’altro pittore, letteralmente squarciato a metà. Il segnalibro artistico, lasciato nel romanzo illustrato, era riuscito a scamparla, superando altresì la prova del tempo : alla morte di van Rappard nel 1892, due anni dopo quella dello stesso van Gogh, era passato alla di lui moglie, la quale lo aveva custodito nel patrimonio familiare per i decenni successivi. Fino a quando, nel 2019, il singolare oggetto entrava a far parte della collezione del museo di Amsterdam.
Il povero Vincent non può commentare tutto il business che gira intorno alla sua arte, se potesse, accoltellerebbe tutti i mercanti che non gli avrebbero valutato due lire i suoi capolavori quando creava in geniale follia…
Come starebbe bene nella mia collezione di segnalibri 🙂