Nello studio di Piero Manzoni con Antoh

Me lo immagino poco diverso da oggi, il quartiere di Brera a Milano negli anni ’60. Un viavai d’impiegati, camerieri, ambulanti, studenti e perditempo d’ogni età diretti verso improbabili occupazioni ; a mancare, credo, erano i turisti stranieri intenti a scattare selfie ai tavolini dei ristoranti. Nella folla d’anonimi che calcavano le strade strette, lastricate dai ciottoli in pietra tanto esecrati dalle donne in tacchi alti, mi sarebbe poi piaciuto riconoscere qualche volto famoso, di quelli che figurano sulle foto storiche del mitico bar Jamaica.

Erano Luciano Bianciardi, Lucio Fontana, Ennio Morlotti, Giorgio Gaber, Enrico Baj, Dino Buzzati, Indro Montanelli… erano tanti, erano forti, erano i protagonisti di una formidabile epoca artistica e culturale, forse la più vivace che Milano abbia finora conosciuto. E tra questi pittori, scrittori, poeti, musicisti e inventori di meraviglie, spiccava un giovane uomo dal viso leggermente paffuto e lo sguardo ancora da ragazzino, discendente d’una delle più illustri famiglie lombarde. D’altronde, quando si porta il cognome di Manzoni, è impossibile passare inosservati.

Lui, Piero, pronipote del celebre autore de I promessi sposi, era tuttavia un tipo disinvolto, vispo, scherzoso, l’esatto contrario del rampollo di buona famiglia imbalsamato in pose impossibili : la puzza sotto il naso, se gli capitava d’averla, era dovuta ai miasmi industriali che allora impestavano il capoluogo lombardo. Aveva scoperto la sua anima artistica ancora adolescente, quando d’estate, in vacanza ad Albissola, il pittore e scultore Lucio Fontana era rimasto favorevolmente impressionato dai suoi disegni, sicché giunto alla maggiore età e iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano aveva abbandonato gli studi per dedicarsi a tempo pieno alle strane idee che gli passavano per la testa : dai primi paesaggi e ritratti a olio era infatti passato a quadri senza colore, tele grinzate e misteriosi oggetti concettuali.

I soldi non gli mancavano – pagava la mamma – e i circoli intellettuali milanesi lo avevano accolto a braccia aperte ; così, poco più che ventenne, Piero Manzoni figurava tra i giovani artisti più promettenti del panorama italiano. Nel giro di poco tempo s’era costruito una solida reputazione tra gallerie e spazi espositivi, facendosi conoscere persino oltralpe, ma la sfortuna volle che la sua carriera fu tanto intensa quanto breve : il 6 febbraio 1963, a trent’anni neanche compiuti, si spense all’improvviso stroncato da un infarto. Il mondo lo avrebbe ricordato soprattutto per la sua opera d’ispirazione scatologica, la popolarissima Merda d’artista concepita nel dicembre del 1961, e questo per motivi che forse travalicano i reali intenti di Manzoni. Una cacca inscatolata, esposta in un museo o battuta all’asta per centinaia di migliaia di euro, non può del resto che suscitare stupore, anche tra persone poco interessate alle bizzarre cogitazioni dell’arte moderna.

Ma oltre a strambe creazioni ormai sparse in giro per il mondo, di Piero Manzoni rimane lo studio dove egli passava i giorni e le notti a lambiccarsi il cervello. Si trova a Milano in via Fiori Chiari, nel cuore di Brera, e alla morte dell’artista fu presto recuperato da un altro importante esponente della cultura milanese dell’epoca, il cantante lirico Giuseppe Zecchillo. Era un collezionista d’arte, Giuseppe Zecchillo, talmente estimatore del giovane defunto da omaggiarne la memoria facendo di quello che era stato il suo luogo di lavoro uno spazio di socialità artistica ; non si trattava propriamente d’una galleria, tantomeno un circolo privato, quanto di un ritrovo d’anime creative.

Oltre infatti a utilizzarlo come sala prove per esercitarsi al pianoforte, il musicista vi organizzava incontri tra vecchi amici di Piero Manzoni e giovani artisti alla ribalta. Cene, esposizioni collettive, tavole rotonde… ma anche feste e balli indiavolati nella sottostante cantina : insomma in via Fiori Chiari al 16 rimaneva vivo l’entusiasmo dei primi anni ‘60. Alla morte poi di Giuseppe Zecchillo, nel novembre 2011, lo studio passò a suo figlio Graziano, il quale continua l’attività di promozione di nuovi talenti in collaborazione con la vicina Accademia di Belle Arti di Brera.

A farmi scoprire questo luogo fuori dal tempo, un pomeriggio dello scorso maggio, è stato un artista che conosco ormai da qualche anno ma che purtroppo ho raramente l’occasione d’incontrare di persona ; abitando io a Lione e lui in provincia di Monza, è dura frequentarci con regolarità. Malgrado tuttavia la distanza che ci separa, con Antonio Mansueto, in arte Antoh, bancario laureato in fisica con la testa tra i colori e i pennelli, sono riuscito a costruire un’interessante complicità. Sarà che entrambi ci troviamo a fare i conti con un problema di questi tempi molto comune, soprattutto tra le persone che trascorrono parecchie ore davanti al computer, l’insonnia. Insonnia subita, la mia ; insonnia voluta, la sua.

Mentre io infatti sono già in piedi il mattino prestissimo, e attendo il sorgere del sole sfogliando giornali o bighellonando nel corridoio di casa, lui tira tardi la sera dedicandosi a un’occupazione ben più fruttuosa : lui disegna, dipinge, taglia, incastra, incolla, smonta, colora, riassembla, riversa su tela, carta, legno o i supporti più disparati i liberi pensieri maturati durante la giornata. E il risultato del suo lavorio notturno, pensate, si trova attualmente esposto nello scantinato dell’ex-studio di Piero Manzoni.

Mi piacerebbe commentare le sue opere in mostra, scrivere la buona paginetta del blogger ligio ai propri propositi, ma confesso che stavolta fatico a trovare la maniera adeguata d’affrontare l’argomento. Perché Antoh un artista difficile da inquadrare, un artista anarchico, cresciuto a pane e surrealismo e nel corso del proprio tragitto creativo imbarcatosi sui principali -ismi del ventesimo secolo : espressionismo, astrattismo, graffitismo, fauvismo… fino a dimostrarsi ancora capace, a sessant’anni suonati, di scombiccherare le carte in tavola. Ricordo che quando l’ho incontrato per la prima volta, durante una fiera d’arte in Francia, sono rimasto colpito dal divario tra il suo temperamento, gentile e compassato, e il suo stile pittorico tutto estro e stravaganza. Inizialmente questo mi aveva fatto pensare che per lui l’arte fosse un diversivo, una via di fuga, lo sfogo di un timido, e invece mi sto pian piano persuadendo che le sue immaginose composizioni formali e le sue figurine stilizzate vadano oltre la sfera personale per evocare un sentire collettivo. Come se le sue opere fossero il divertito stravolgimento di una realtà già in disordine ; come se riflettessero, nella loro aperta irrazionalità, il grande papocchio in cui affonda il mondo contemporaneo.

D’altronde quando alla televisione, sui giornali, nei siti internet d’informazione viene dato spazio ad affabulatori, terrapiattisti e profeti dell’inverosimile, come prendere le cose sul serio ? Quando qualsiasi notizia, voce, slogan, predica, promessa balorda assume il peso di verità scientifica, a chi dare più credito ? Così la gente si confonde, le certezze si disperdono, vecchie e nuove categorie paiono ormai saltate per aria. E così l’arte si ribella, gli artisti se la ridono, è una gara a chi la inventa più stramba : tanto è inutile cercare un senso definitivo nella merda manzoniana, quanto vale arrovellarsi davanti alle sagome illuminate e i giochi cromatici del mio amico Antoh.

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