Dopo aver percorso una decina di località italiane totalizzando più di un milione di visitatori, la grande mostra sul fotografo americano Steve McCurry è finalmente arrivata a Lione, unica tappa francese del suo lungo itinerario. McCurry è in città ! Appresa la notizia, una domenica di qualche settimana fa non ho potuto che precipitarmi alla Sucrière, spazio che attualmente ospita l’esposizione : peccato per me, molti altri lionesi avevano sentito lo stesso bisogno impellente, e così ci siamo tutti dovuti confrontare a una coda all’ingresso di oltre due ore.

Non so come voi avreste reagito in una tale situazione, ma io sono dell’opinione che il tempo è denaro anche nei giorni non lavorativi, pertanto l’idea di trascorrere una porzione importante di domenica pomeriggio in arida attesa non mi è proprio andata giù. Solo e scornato, me ne sono tornato a casa.
Per evitare allora di ricadere nel tranello e fare di nuovo la figura del pecorone, ho deciso di agire da stratega e presentarmi alla mostra un sabato mattina, momento solitamente di bassa affluenza – anche ai francesi il weekend piace dormire. Questo mio secondo tentativo è andato a buon fine, e malgrado la folla man mano crescente nelle sale espositive sono riuscito a divincolarmi agevolmente e gustarmi appieno le oltre 200 fotografie di Steve McCurry riprodotte in formato macroscopico.
Di elogi, ne sono convinto, il fotografo americano non ne ha più bisogno, i record di visitatori alle sue mostre e i premi vinti in giro per il mondo parlano da se : McCurry piace, piace tantissimo, è probabilmente uno degli artisti contemporanei più amati dal pubblico. E questo, beninteso, è in gran parte merito del suo straordinario talento : i suoi scatti sono innegabilmente belli, una vera gioia per gli occhi di chi li contempla. Grazie a una padronanza tecnica che non ha eguali, unita a una capacità straordinaria nel reperire la singolarità, la grazia, le suggestioni nascoste in questo vasto mondo, nelle fotografie di Steve McCurry tutto pare messo in valore, o per meglio dire aumentato : i colori paiono più vivaci, le luci più splendenti, i contrasti più eclatanti, e la realtà, in ultimo, ancor più reale. La mostra, pertanto, è un ottimo modo di fare un piacere alla nostra vista, spesso affaticata dalle troppe ore passate davanti allo schermo di un computer.

Aldilà poi dell’appagamento estetico, immergersi tra i numerosissimi scatti fotografici di McCurry è quasi come immergersi nella vita stessa del loro autore. Una vita, quella del fotografo americano, fatta di viaggi, di scoperte, d’incontri e di tribolazioni : una vita scomoda, diciamolo, ma anche intensa ed emozionante, una vita che in molti sognano di condurre ma che in pochissimi avrebbero veramente il coraggio d’intraprendere.

Il punto di svolta nella carriera di Steve McCurry, quello che segna non solo il suo percorso professionale ma anche la sua intera esistenza, è la decisione presa in giovane età, a trent’anni non ancora compiuti, di lasciare il lavoro presso un giornale di Filadelfia e partire per l’India, paese dove trascorre un anno alla scoperta di un popolo e di una cultura che lo influenzeranno per sempre. Il periodo di cui stiamo parlando è la fine degli anni ’70, quando Stati Uniti e Unione Sovietica facevano ancora il bello e cattivo tempo nel grande gioco del potere, e tra un’escursione himalayana e una sortita in Pakistan al giovane americano riesce d’intrufolarsi in territorio afgano, poco prima che questo sia invaso dalle truppe russe.
Allo scoppio del conflitto, l’audace fotografo si trova davanti a una grande opportunità, probabilmente la più grande mai presentatagli : realizzare un reportage della guerra in Afghanistan al fianco dei combattenti locali, i mujaheddin afgani. Nel corso di diversi mesi, tra il 1979 e il 1980, Steve McCurry percorre gli impervi territori asiatici seguendo gli spostamenti dei guerriglieri e documentandone le attività su pellicola fotografica, ma a venirne fuori non è un crudo resoconto del conflitto armato. Piuttosto che mostrare il sangue, i cadaveri, le bombe, i tiri d’artiglieria e la sofferenza patita dal popolo invaso, il fotografo preferisce ritrarre i volti, gli abiti, le usanze di questi uomini dotati di una forza sconcertante ma anche di uno spiccato altruismo. Il reportage di guerra, insomma, sconfina quasi nello studio antropologico.

Questi scatti in bianco e nero valgono a McCurry la medaglia d’oro Robert Capa, una delle più importanti onorificenze giornalistiche, e a quel punto la carriera del giovane fotografo subisce una brusca impennata. Viaggiare, Steve McCurry inizia a macinare chilometri su chilometri, accumulare ore di volo, traversate in traghetto, spostamenti in macchina e veicoli di qualsiasi tipo per raggiungere i luoghi più reconditi. A metterlo in moto è il desiderio di scoprire, di vedere, di catturare con l’obiettivo fotografico le varietà della specie umana, ma anche il filo invisibile che unisce popoli lontanissimi tra loro.
Dall’India al Giappone, passando per il Pakistan e la Cambogia, e poi, indietro, a casa, fino ai distanti Stati Uniti dopo aver fatto tappa in Mali ed Etiopia, McCurry elabora in oltre quarant’anni di attività una personalissima cartografia del pianeta Terra ; una cartografia, pensate, fatta non tanto di mari, di montagne, di fiumi e di strade, quanto di volti, di sguardi, di sorrisi e di lacrime di persone diversissime per origine e classe sociale. Una donna in kimono nella metropolitana di Tokyo, dei pescatori sulle rive di un lago dell’Asia centrale, un ragazzo dei sobborghi di Los Angeles o una giovanissima rifugiata afgana formano così il caleidoscopio di un’umanità pittoresca, un’umanità vivace. Un’umanità forse troppo bella per essere vera. Un’umanità, insomma, che si vede solo in fotografia.
McCurry è un grandissimo e le immagini da lui scattate in ogni parte del mondo testimoniano l’esodo dell’umanità con una sensibilità unica, drammatica e cromaticamente perfetta…
Steve McCurry e uno dei piu grandi maestri della fotografia contemporanea ed e un punto di riferimento per un larghissimo pubblico, soprattutto di giovani, che nelle sue fotografie riconoscono un modo di guardare il nostro tempo e, in un certo senso, “si riconoscono”. Molte delle sue immagini sono diventate delle vere e proprie icone, conosciute in tutto il mondo, a partire dalla ragazza afghana pubblicata dal National Geographic.