Milano, secondo finesettimana di giugno. Trovo sempre un pretesto per fare una scappata nella mia città di origine, Natale, Pasqua, il mio compleanno oppure la noia che mi assale taluni periodi, ma stavolta ho voluto inventarmi uno scopo culturale per le dodici ore di macchina che mi sono sorbito nel giro di un solo weekend. A Milano, tra il 4 e il 10 giugno, si è svolta la settimana della fotografia – Milano PhotoWeek per dirla come quelli che stanno sul pezzo – ovvero una serie di mostre, incontri, saloni e visite guidate organizzata dall’amministrazione comunale e tesa a esplorare la fotografia quale strumento d’indagine principale della contemporaneità.
Un intento nobile, encomiabile, eccellentissimo, quello del comune milanese : alternare alle periodiche e decadenti fashion week qualche giorno dedicato invece a una tecnologia che sempre più si sta rivelando un mezzo d’espressione artistica a portata del grande pubblico.
Queste, come ho scritto, erano le belle premesse, le mie lodevoli dichiarazioni d’intenti : fare un giro in via Tortona, Brera, corso Garibaldi e magari anche alla Triennale, per poi scrivere un articolo a mo’ di reportage da proporre a qualche rivista di settore, o alla peggio da pubblicare sul mio solito blog. Le cose, invece, si sono svolte in tutt’altra maniera.
Sabato 9 giugno, ore 10 e 30 del mattino. A Porta Genova, proprio davanti all’uscita della stazione metropolitana, avevo appuntamento con l’amico di vecchia data Carlo Cecaro, artista conosciuto qualche anno fa all’edizione milanese dell’Affordable Art Fair. Più che un pittore o un maestro del disegno, Carlo è un provocatore pazzoide, uno di quegli uomini che hanno deciso di fare della propria vita, o per meglio dire della propria maniera di comportarsi, un’autentica e imprevedibile opera d’arte.
In occasione del ritrovo tra noi due, oltre beninteso l’aggiornarci sulla mia e sulla sua esistenza matta e disperatissima, era nostro proposito scorrazzare distratti con quello che è forse il capolavoro di Carlo, un quadro (non azzardatevi a chiamarlo cartello !) in tutto e per tutto simile alle affissioni che si vedono esposte fuori dai palazzi, Vendesi o Affittasi, proclamante però il verbo dei verbi, la parola sottaciuta che perturba il quieto vivere degli italiani : Truffasi.
Queste comparsate in luoghi pubblici, tra leggera farsa e plateale presa per il culo, Carlo Cecaro ama considerarle performance artistiche, mentre a me ricordano le esilaranti candid camera che mi somministro quotidianamente per mezzo di Youtube. Comunque lo si veda, sperimentazione creativa o innocuo sberleffo,
il camminare per le vie di Milano con un bel Truffasi gigante sottobraccio è qualcosa di follemente geniale, anche solo per le reazioni che provoca nei passanti.
Ci bastava infatti percorrere duecento metri, da Porta Genova alla passerella ferroviaria che collega via Ventimiglia a via Tortona, per capitare sul primo dei diversi incontri che avrebbero segnato la nostra mattinata : Luigi, un simpatico signore con barba e cappello, venditore ambulante di caratteri mobili nonché autore di romanzi da premio Nobel (se solo provasse a pubblicarli).
Il classico tipo con cui potrei fermarmi a parlare ore e ore senza arrivare a un punto e a capo. Intanto che Luigi mi spiegava la sua visione del mondo e della letteratura, tra una citazione di Hermann Hesse e un rimando a Carlo Emilio Gadda, si univa alla nostra piccola combriccola un giovane storico dell’arte – uno vero, mica di quelli che tengono blog su internet – incuriosito dall’irresistibile Truffasi di Carlo. Ma quel Truffasi a cosa si riferisce ? è la domanda che di solito viene rivolta all’artista performer, e da lì parte la conversazione.
Dalla passerella ferroviaria ci spostavamo tutti e quattro al bar all’angolo : croissant, latte, zucchero, caffè – il caffè di solito non lo bevo ma quando mi trovo in compagnia fatico a rifiutarlo – convenevoli e anche qualche cazzata : ecco che io e Carlo riprendevamo il cammino e di lì a breve arrivavamo alla vera meta del nostro itinerario, la fiera d’arte Paratissima ospitata nella sede di BASE, spazio espositivo culturale al numero 34 di via Bergognone.
Per la prima volta a Milano, dopo innumerevoli edizioni a Torino e qualche escursione fuoriporta, Paratissima è un salone d’arte contemporanea nato ormai tredici anni fa nel capoluogo piemontese come alternativa underground alla rinomata e inaccessibile Artissima : la sua, insomma, è la storia del parente povero che con il tempo si è arricchito senza perdere la spontaneità e la simpatia degli esordi. Tema di Paratissima, questa volta, era Through the Black Mirror, ossia l’indagine di ciò che si trova aldilà dello specchio scuro – quello del computer spento – per mostrare distorsioni sociali e collettive o intime e private. Attraverso i lavori di oltre cento artisti selezionati (molta fotografia, molta pittura, molte installazioni, molta scultura, molto disegno, molto di tutto…) veniva lanciato uno sguardo lucido e impietoso sul presente.
La visita di me e Carlo alla fiera, tuttavia, non aveva lo scopo solamente di ammirare tante belle opere d’arte ma anche di proseguire la nostra traiettoria performativa in un luogo a lei proprio : contestualizzare il Truffasi, amplificandone così il messaggio, la potenza, l’acuminato sottinteso. Immaginatevi pertanto due tipi che paiono sbarcati dalla Luna aggirarsi con aria spaesata e portandosi appresso una tela pitturata di giallo recante il monito supremo ; eravamo io e Carlo Cecaro a Paratissima Milano. Anche qui, capirete facilmente, le occasioni d’incontro e scambio reciproco d’opinioni non mancavano, soprattutto con le due artiste torinesi Elisabetta Zurigo e Alice Serafino, si parlava del fare arte e del fare le fiere, del diventare artista pur continuando la routine quotidiana di lavoro, casa e famiglia.
Tra una battuta e l’altra, tra una parola di troppo e una di meno, scoprivo man mano i lavori esposti nelle sale di BASE, e malgrado l’essere su di giri dovuto al caldo e alle frequenti sollecitazioni, la mia attenzione si rivolgeva a un personaggio di spalle, un incappucciato con lo sguardo diretto verso il muro. Eccola, pensavo, l’opera di cui avrei scritto nel mio blog : non la più bella – la bellezza è tutt’altra cosa – ma quella che all’interno di Paratissima meglio si prestava alle mie elucubrazioni da intellettuale del finesettimana.

Giulio Alvigini
2017. Vetroresina, vestiti, capelli veri, scritte
Come si chiamava ? Agli italiani piace parlare inglese perché l’inglese fa più figo, pertanto il creatore di questa installazione ha deciso di trovarle un nome nella lingua di Shakespeare : I will never copy Maurizio Cattelan anymore (che secondo il traduttore di Google significherebbe più o meno “Non copierò Maurizio Cattelan mai più”). Si tratta di un gioco, più che di un’opera d’arte, un gioco che il giovane artista Giulio Alvigini vuole fare con se stesso e con il pubblico. Un modo di parlare scherzoso per non prendersi sul serio : finendo, invece, con il prendersi addirittura troppo sul serio.
Il fantoccio messo nell’angolo, naso lungo e cappuccio in testa, è un doppione del personaggio inquietante di Maurizio Cattelan esposto al museo d’arte nel Castello di Rivoli, Charlie don’t surf, ma anche un riferimento alla brevissima sequenza della sigla dei Simpson in cui Bart, punito per l’ennesima marachella, scrive ripetute volte alla lavagna il motivo della sua espiazione. Non devo… Non devo… Non devo… In I will never copy Maurizio Cattelan anymore ci sono il delitto e il castigo, lo scimmiottamento abusivo del maestro e la giusta punizione. Io la vedevo così, questa installazione fatta di vetroresina, vestiti, capelli veri e scritte, ma probabilmente l’intento di Alvigini era di far passare un altro messaggio. Che importa ? Il bello dell’arte contemporanea è che in fondo ciascuno ci vede quello che gli pare : non ho forse ragione, Carlo ?
Davvero bel post! Mi hai illuminata perchè non conoscevo Carlo Cecaro, geniale, e neanche la Fiera d’arte Paratissima. Da brava fan dei simpson, dai a parte gli scherzi, mi ha fatto molto piacere conoscere un giovane artista come Alvigini e la sua installazione
Ti ringrazio molto, Sara. Ho visitato il tuo blog e mi pare davvero una bella iniziativa, penso che inizierò a frequentarlo regolarmente 🙂
Sono perfettamente d’accordo con te! ” il bello dell’arte contemporanea è che in fondo ciascuno ci vede quello che gli pare”