Esiste una vecchia teoria secondo cui per ogni uomo ci sono sette donne. Mi domando se a inventarla sia stato qualche seduttore impenitente, il solito scapolo inconsolabile o piuttosto un asettico centro di statistica. Comunque sia, probabilmente la sua validità scientifica è pari a quella delle antiche credenze secondo cui le banane fanno ingrassare o i mancini sono più intelligenti. Ora voi vi chiederete il perché di questo insulso preambolo: francamente non me lo so spiegare nemmeno io. Forse è la prima cosa (stupida) che mi viene in mente davanti a Ten Lizes di Andy Warhol. Non uno, non due, non tre… non tredici, non dodici, non undici… Ma addirittura dieci ritratti di Elisabeth Rosemond Taylor (per gli amici va bene Liz). Una delle attrici più famose nella storia di Hollywood. Sì, cari miei lettori più sbarbati, più famosa anche di Scarlett Johansson o Natalie Portman.

Andy Warhol
1963. Olio e lacca su tela (processo serigrafico)
Nel 1963 Liz Taylor ha trent’anni, e da ragazzina protagonista di Torna a casa Lessie! è diventata la formosa interprete perfetta per il Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz. L’apice della sua carriera. Tutti la conoscono, gli uomini la sognano, le casalinghe di Voghera la invidiano, la sua fama è paragonabile a quella di un pacchetto di pasta Barilla, o se volete, visto che siamo in America, a una lattina di zuppa Campbell. Insomma, il suo bellissimo viso è divenuto un emblema di popolarità e successo: un’icona contemporanea. Facciamole un ritratto, deve essersi detto Andy Warhol. Anzi, visto che la sua figura è talmente amata e (ri)conosciuta, facciamole un ritratto multiplo, un ritratto decuplo. Il suo volto è estrapolato da una fotografia e ripetuto dieci volte mediante il processo meccanico e anonimo della serigrafia. Paganini non ripete, Andy Warhol sì.
Quella di Liz Taylor diviene in Ten Lizes una bellezza moltiplicata, sempre uguale a se stessa, potenziata dal processo di ripetizione e dallo stesso processo depauperata di senso (l’ho detto, l’ho detto!). Warhol non edifica un monumento alla bellezza dell’attrice, come poteva fare a suo tempo Leonardo da Vinci con la Mona Lisa. L’intenzione dell’artista americano è l’esatto opposto. La società dei consumi ha fagocitato il pregio dell’unicità, tutto deve essere replicabile e vendibile. L’arte, specchio della società, ha intrapreso lo stesso cammino, dalla riproduzione unica del modello si è passati alla rappresentazione in serie.
Lo spettatore che guarda il viso di Liz Taylor in Dieci Lizes si è talmente abituato a vedere l’immagine dell’attrice al cinema, in televisione, sui giornali, sui cartelloni pubblicitari etc… da non prestare più attenzione ai dettagli. Vederlo poi moltiplicato e ingigantito su una tela 201 x 564,5 cm scatena il famigerato depauperamento di senso (perdita di significato, ovvero il non voler più dire niente) dell’immagine stessa. E’ un po’ come quelle parole o espressioni che ripetute troppe volte finiscono per non comunicare più nulla. Al lupo, al lupo ! gridava il pastore. Una, due, tre, quattro, cinque… mille volte. Fino a quando non ci credeva più nessuno.
Ho apprezzato molto questo articolo. Il tuo commento (sagace) mi ricorda un po’ un’opera di Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Complimenti per il tuo blog! Mi piace il tuo “sguardo” sul mondo dell’arte ed anche il tuo saperlo raccontare alle persone. Ti continuerò a seguire!
Ti ringrazio. Davanti alle opere di Warhol le prime cose che vengono in mente sono il filosofo Walter Benjamin e i duri momenti della preparazione dell’esame di estetica al primo anno di università 🙂