Nel fiume di disperazione che di questi tempi ci riversa addosso qualsiasi giornale o telegiornale, ogni tanto salta fuori anche una bella notizia : Paul McCartney, ex componente del mitico gruppo musicale britannico The Beatles, ha appena pubblicato un nuovo album da solista, McCartney III. A settantotto anni compiuti, il cantautore originario di Liverpool canta e suona ancora, per la gioia dei suoi vecchi ammiratori e delle giovani generazioni.
Non è però di musica che oggi vi voglio parlare, ma di un personaggio, un artista, che mi torna inspiegabilmente in mente ogni volta che viene menzionato il popolarissimo musicista inglese : un suo omonimo, o meglio un suo quasi omonimo, dato che i due hanno un nome molto simile ma non identico. Paul McCarthy, nativo dello Utah, classe 1945, specializzato in performance, scultura e video art.
Di lui, di McCarthy l’americano, vi confesso che non mi sono mai veramente interessato, ma la sua sola opera che mi è capitato di scoprire, ormai qualche anno fa in occasione di una Biennale di arte contemporanea a Lione, mi ha talmente impressionato che tuttora ne conservo un vivo ricordo. S’intitola Rocky ed è un video risalente al 1976, anno in cui il film omonimo – stavolta perfettamente omonimo – con Sylvester Stallone veniva presentato nelle sale cinematografiche statunitensi e nel giro di pochi mesi rendeva l’attore protagonista una celebrità internazionale.
La favola del pugile testardo e squattrinato cui a fine carriera viene offerta l’impensabile opportunità di battersi con il campione del mondo in carica, infatti, non solo commuoveva milioni di spettatori grazie alla sua magistrale alchimia di tenerezza e brutalità, ma si faceva anche portavoce di uno dei miti della cultura a stelle e strisce : il mito della seconda chance, quella riservata ai perdenti. Guardando a questa glorificazione dell’uomo comune, a questo inno alla forza di volontà, Paul McCarthy realizzava un’opera che andava in senso esattamente opposto.
Il Rocky che si vede nel suo video è l’artista medesimo vestito da pugile : torso denudato, pantaloncini, guantoni e un’orribile maschera sul viso, tiene la guardia alzata e saltella davanti alla telecamera che lo riprende frontalmente. Quando però inizia a scagliare pugni, il bersaglio non è che la sua testa, proprio così, pum, pum, pum ! – McCarthy picchia se stesso emettendo grugniti che ricordano il modo di parlare di Sylvester Stallone nel film pluripremiato. E in questo folle crescendo di violenza autodistruttiva, tra cazzotti male assestati e sventole in piena faccia, arrivano anche colpi bassi, colpi sotto la cintura, gemiti sempre più acuti, schizzi di ketchup a imitazione del sangue… finché l’improbabile pugile si accascia al suolo, esausto, ma continua imperterrito a procurarsi del male. Come se mettersi k.o. con le proprie mani non basti a placare la sua inspiegabile furia.
L’artista scimmiottava grottescamente il personaggio interpretato da Stallone sul grande schermo, ne faceva un’orripilante caricatura, e con tale performance intendeva rivelare al pubblico una scomoda verità. Guardate chi è realmente il vostro eroe, guardate questo pazzo che si comporta in maniera insensata e finisce con il demolirsi da solo ! Il modello di uomo proposto al cinema, l’uomo di successo, l’uomo che riesce a districarsi tra mille difficoltà, era nell’interpretazione distorta di Paul McCarthy un malato di mente, un reietto. Forse questo discorso non trova solo consensi, però una cosa deve essere riconosciuta all’artista americano : si tratta di un tipo con le palle. Pur di sostenere la propria opinione, è disposto a prendere le botte. Anche da se stesso.
Era quello dei würstel e ketchup.
Insopportabile e inguardabile.
Non lo ho mai sofferto eppure ci “costringevano” a studiarlo.