Vanity Fair è una rivista che a memoria credo di non avere mai letto, sinceramente non saprei neanche dire di che cosa tratti : costume e società ? Due parole che significano tutto e niente – come del resto significa tutto e niente la frase Quello che è non è quello che sembra riportata appena sopra la testata in copertina. Chissà che un giorno, capitandomi tra le mani una copia di questo giornale, non scopra un mondo diverso da quello cui sono ormai abituato, magari più luccicante, euforico, colorato… o al contrario frivolo e vacuo.
Nell’attesa che questo giorno arrivi, ho appreso che la scorsa settimana Vanity Fair se n’è uscito con un’edizione speciale dedicata alla crisi che l’Italia sta vivendo ; eminenti economisti, filosofi, cineasti, designer e top manager operanti nei settori più disparati vi abbozzano una ricetta che permetta al Paese di riprendersi dalla batosta colossale somministratale dall’epidemia di Covid-19. Ciò che ha catturato la mia attenzione, tuttavia, non sono stati i nomi importanti che Vanity Fair ha deciso di coinvolgere per interviste e interventi personali, ma l’originale copertina della rivista ideata in esclusiva da Francesco Vezzoli, uno dei maggiori artisti italiani contemporanei.
Nato a Brescia e residente a Milano, più prossimo ai cinquanta che ai quaranta, Vezzoli si è distinto a partire degli anni ’90 nell’ambito della videoarte, ossia la sperimentazione artistica mediante strumentazioni video – da non confondere assolutamente con il cinema d’autore o d’art et d’essai. Le sue opere, considerate tra le più innovative degli ultimi decenni e ormai abbonate a Biennali d’arte di tutto il mondo, rispecchiano lo spirito dissacratorio e profetico cui l’enigmatico slogan di Vanity Fair pare corrispondere a pennello : quello che sono non è quello che sembrano. Si presentano infatti come dei cortometraggi del tutto simili a trailer di film mai girati o a episodi di programmi televisivi mai andati in onda, dove figurano celebrità internazionali del calibro di Sharon Stone o Benicio del Toro, ma sono in realtà degli astuti congegni atti a smascherare la natura effimera del cinema e della televisione. Dietro l’aria candida e un poco smarrita dell’eterno studente fancazzista, l’artista bresciano è un dotto sofisticatore cui piace confondere il pubblico, mischiare i codici della rappresentazione, ribaltare simboli e convenzioni. Insomma, a Francesco Vezzoli piace giocare.
Contraddistinto dalla stessa ambiguità, dallo stesso trasformismo tipico delle altre creazioni di Vezzoli, è il suo quadro che compare in copertina dello scorso numero di Vanity Fair : una tela tricolore, rossa bianca e verde come la bandiera italiana, con un sottile ed elegante taglio al centro, metafora della recentissima ferita inferta al Belpaese ma soprattutto inconfondibile richiamo alla trovata che fece definitivamente iscrivere Lucio Fontana nel firmamento dei più grandi artisti del ventesimo secolo. Perché quando si vede un quadro tagliato, ma anche bucato, sbrecciato o lacerato, è impossibile non pensare a Fontana e ai suoi famosissimi Concetti spaziali. Ma oltre agli squarci di Lucio Fontana, l’opera di Vezzoli rimanda a una serie di quadri altrettanto importanti nella storia dell’arte contemporanea, le bandiere a stelle e strisce dipinte a encausto dall’americano Jasper Johns negli anni ’50. Ritratta sulla copertina della rivista, infatti, non è una bandiera italiana bensì la rappresentazione pittorica di una bandiera italiana ; a osservarla anche distrattamente si percepiscono le maglie della tela e la consistenza dei colori a olio.
Da due idee non sue, da due idee prese in prestito ad altri, Francesco Vezzoli ha quindi tirato fuori un’opera inedita e astuta. Un procedimento, questo, proprio a molta arte contemporanea, e a ben vedere anche a quella che alcuni intellettuali con la puzza sotto il naso considerano quale un parente povero, un derivato di secondo ordine dell’arte contemporanea : la pubblicità. Il miglior modo per rilanciare Vanity Fair, e con lei tutto il Made in Italy, è d’altronde rilanciare le vendite. E la pubblicità, ancor più dell’arte, è la vera anima del commercio.