
Thomas Feuerstein
2017 – 2019. Batteri, marmo, cellule epatiche umane, vetro, acciaio, pezzi sonori
Sono passati ancora due anni e la Biennale, quella di arte contemporanea, è tornata a Lione, capoluogo della regione Alvernia-Rodano-Alpi nonché terza città di Francia per numero di abitanti. Rispetto all’edizione precedente ci sono state alcune sostituzioni tra il personale alla direzione – è arrivata la squadra del Palais de Tokyo parigino – e qualche variazione nelle locations, ma la formula rimane sempre la stessa : per quattro mesi, dal 18 settembre 2019 al 5 gennaio 2020, la comunità lionese ospita mostre, conferenze, laboratori e incontri dedicati alla creazione artistica contemporanea. E quando scrivo contemporanea intendo radicalmente contemporanea, dimenticatevi quindi dipinti, sculture, disegni oppure, che so, arazzi e mosaici ; a dominare è ciò che ora viene considerato il massimo dell’avanguardia, l’installazione, genere artistico criptico e polimorfo, forse per questo ritenuto meglio adatto a esprimere la complessità del presente.
Il tema di questa Biennale è ispirato al titolo di un poema dello scrittore americano Raymond Carver, francesizzato in Là où les eaux se mêlent : là dove le acque si mischiano, in riferimento a un fenomeno che oggi si declina in svariati aspetti : la contaminazione, o meglio, la combinazione d’elementi eterogenei, talvolta parecchio dissimili tra loro, che genera soluzioni nuove, prospettive alternative, modi inconsueti di guardare e pensare il mondo. Per questa metafora idrica non si poteva scegliere un luogo più azzeccato di Lione, città in cui oltre ad avvenire la confluenza di due fiumi, il Rodano e la Saona, è di giorno in giorno più evidente la mescolanza dei flussi economici, culturali e umani caratterizzanti l’epoca attuale.

Léonard Martin
2019. Tessile, motore elettrico
Accanto a spazi convenzionali quali il Museo d’arte contemporanea nella Cité Internationale o l’Istituto d’arte contemporanea di Villeurbanne, infatti, i curatori della Biennale hanno pensato di eleggere come punto centrale dell’evento un’area in cui il passato industriale di Lione incontra la sperimentazione artistica moderna : i vecchi capannoni delle fabbriche Fagor, recentemente riconvertiti in zone espositive. In questi grandi edifici situati nel settimo arrondissement, poco distanti dalla fermata della metro Debourg, sono collocati i pezzi forti della Biennale, ossia delle imponenti installazioni per la maggior parte inedite, realizzate in occasione della mostra.
Passeggiando tra voluminosi impilamenti d’imballaggi industriali ed enormi cumuli di sabbia e terriccio, confesso di aver avuto la sensazione di perdere la bussola, smarrirmi tra le attrazioni di un luna park per intellettualoidi annoiati in cerca non tanto di sensazioni forti quanto di trovate esuberanti e indovinelli rompicapo. Opere degne di considerazione non mancano, su tutte il Prometeo liberato dell’austriaco Thomas Feuerstein, curiosa ibridazione di scultura mitologica e incubo fantascientifico, oppure La Mischia del francese Léonard Martin, installazione gonfiabile ispirata nientemeno che alla pittura di Paolo Uccello, ma perlopiù si tratta di maldestri tentativi di sperimentazione autoreferenziale. Peccato che l’idea di esporre un orinatoio in un museo è vecchia più di cent’anni, e quello che una volta poteva ancora pretendere di stupire o confondere il pubblico – épater les bourgeois dicono in francese – finisce ormai per provocare un semplice sbadiglio.