Fondazione Beyeler : lo strano caso Rudolf Stingel

Questo articolo è stato scritto da Antonio Mansueto, in arte conosciuto sotto lo pseudonimo di Antoh.

La retrospettiva su Rudolf Stingel alla Fondazione Beyeler di Riehen chiude domenica 6 ottobre. Una mostra prestigiosa in una location sempre più importante. L’artista di Merano, trapiantato negli USA, viene definito da Francesco Bonami come “il pittore italiano vivente più importante nel mondo”. E il tema della mostra viene centrato proprio sulla sua attività di “rivalsa” come pittore, in un mondo artistico che riteneva la pittura qualcosa di “vecchio” e “banale”.

Erano gli anni 90. Oggi ogni media può essere valido nell’arte visiva, quindi anche la pittura. Ma, ciò che sembra aver lanciato Stingel, sono le azioni con le quali ha, da un lato, riportato in auge la sua pittura e, dall’altro, l’ha piegata ad una operazione concettuale. Ma è giusto così. Si vive in un’epoca e non si scappa.

Ha fatto storia, di Stingel, per esempio l’idea del 1989 di fare un libro di “ricette”, per insegnare a rifare una sua opera pittorica, dipingere esattamente come lui. Un invito paradossale a copiare. Nel 1991, poi, Rudolf si presenta in mostra personale a New York allestendo la galleria come opera: rivestita di una moquette arancione. Nel 2003, alla Biennale di Venezia, Stingel riveste le pareti dello spazio con cellotex, materiale argentato per l’isolamento termico degli edifici, consentendo al pubblico di scrivere e incidere sul delicato materiale. L’interattività ha successo. Poi passa al dipingere autoritratti iperrealisti ed esistenziali. Come dire, dopo aver fatto breccia in un mondo contemporaneo, può tornare alla pittura.

Le critiche positive sulla mostra di Basilea, ci parlano di questi fatti. Come l’artista ha fatto breccia collaborando ad inventare le sintassi del linguaggio artistico contemporaneo. Ma, a volte, enfatizzando il linguaggio, perdiamo il messaggio. Un linguaggio dovrebbe servire per trasmettere un messaggio: o no? Quindi ritorniamo alla mostra. L’esposizione riesce a ripercorrere le tappe suddette. E pure, le moquette, le istallazioni dei graffiti su argento richiamanti la performance alla Biennale del 2003, le grandi opere, gli arazzi dipinti in tecnica mista la fanno da padroni nelle grandi sale invadendole e dominando gli spazi. Persino, il ristorante del museo, senza timore di “scadere” è rivestito con l’istallazione argentea (vedi le foto). L’impressione generale è in parte il concetto della sua personale “rivestimento in moquette”. Inoltre, all’inizio della mostra, c’è un dipinto che cita una foto presente nel famoso libretto del 1989: auto-citazione.

Eppure, i miei occhi leggono nel percorso della mostra un messaggio semplice, non acculturato, che i critici ignorano. La volpe dipinta sulla neve, il grande dipinto che mi ricorda un alpeggio fiorito, gli arazzi e tappezzerie quasi da maniero di montagna, un sognante panorama montano e, per finire, proprio gli allestimenti argentei e azzurri, nel loro insieme, mi riportano insistentemente ai gelidi ghiacciai, alle scure antiche dimore, ai boschi e i prati delle alpi. Soggetti tipici di arte tradizionale ed anacronistica genialmente trasfigurati, grazie alle tecniche, in arte contemporanea. Tanto più “banalizzati” quanto più l’artista vissuto negli USA e non sulle alpi, a mio parere, traspone la nostalgia malinconica per le sue origini “stilizzate” nella sua opera. Posso fare una concessione, immaginando un parallelo tra i temi della aspra e solitaria montagna, e la solitudine esistenziale della brulicante grande mela. Ma, per la mia mente bambina, Rudolf Stingel resta un artista alpino accolto nel Gotha dell’arte internazionale.

 

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