Penso che ci sia il tempo per ogni cosa, il tempo del lavoro, il tempo del riposo, il tempo dell’allegria e il tempo della solitudine. Quello di sabato 10 novembre, vi confesso, non ho ancora ben capito quale tempo fosse. Forse, a pensarci bene, il tempo di una fredda giornata autunnale.

Jean-Christophe Fischer
2013. Acrilico su tela
Il cielo era grigio sopra Lione, la città in cui vivo, con rari sprazzi di azzurro che s’intravedevano tra le nuvole leggere e veloci ; a una mattinata di pioggia battente era subentrato un pomeriggio fragile e ventoso, e qualche goccia vagabonda mi bagnava ancora il berretto che portavo schiacciato sul cranio e le spalle appuntite della giacca. Dopo una settimana passata in ufficio, mi ero detto, non potevo rimanere seduto a casa, magari inebetito davanti allo schermo del computer, e così avevo deciso che malgrado il clima poco clemente avrei passato le ore pomeridiane in giro, per strada, chissà che camminando distratto non mi venisse in mente qualche spunto, qualche idea da mettere in pratica una volta che fosse finalmente tornato il bel tempo, il tempo dell’azione.
A differenza di altre volte, tuttavia, quando l’ozioso ciondolamento non mi porta più distante della panetteria all’angolo della strada in cui abito, in questo caso il mio zigzagare tra gli isolati della città aveva uno scopo, una meta ideale. L’avevo scovata navigando su internet, tra i confusi risultati che Google offriva digitando nel campo di ricerca la combinazione “esposizioni arte Lione” : Le guetteur mélancolique, una mostra che la galleria d’arte Licence IV in place du Gouvernement, nel cuore della città vecchia, dedicava al pittore Jean-Christophe Fischer.

Jean-Christophe Fischer
2013. Acrilico su tela
In un primo momento, non lo nascondo, i quadri dell’artista francese avevano catturato la mia attenzione per la somiglianza che vi trovavo con quelli di un altro artista, uno dei miei preferiti, Francis Bacon, l’adorabile canaglia cui abitualmente riservo articoli devozionali. Colori cupi, corpi deformi, atmosfere allucinate : mi piace Bacon, pensavo, non può che piacermi anche Fischer. (Seguendo lo stesso procedimento logico, questa estate ho scoperto di amare il gusto della trota : mi piace il salmone, una sera mi sono detto, non può che piacermi anche la trota.)
Il blando itinerario su cui impostavo il passo per recarmi alla galleria, tra una breve sosta in place Bellecour dove si stava svolgendo una manifestazione contro il maltrattamento degli animali e uno scalo in libreria, nelle mie intenzioni doveva essere la preparazione a ciò cui stavo andando incontro : il riscaldamento del guerriero prima di scendere nell’arena. Il cielo plumbeo e l’aria tagliente, ripeto, ci mettevano qualcosa di loro, nel rabbuiare il mio stato d’animo, e anche le acque dei fiumi Rodano e Saona, quel giorno agitate e limacciose, creavano uno spettacolo inquietante. Mi ero messo, il sabato che sanciva la prima terzina di novembre, nella disposizione giusta per affrontare la pittura di Jean-Christophe Fischer. I dipinti che mi accoglievano, entrato finalmente nella galleria d’arte Licence IV, parevano a una prima occhiata dei buchi neri nella parete dai quali si affacciavano personaggi sinistri e misteriosi.

Ritratti, i quadri di Fischer in esposizione erano tutti dei ritratti in acrilico su fondo scuro. Raffigurati, tuttavia, non erano uomini o donne dall’identità specifica ma individui senza nome, esseri inermi, creature prive dello spirito vitale che solitamente illumina lo sguardo, anima le membra, suscita la parola. Si trattava, insomma, di spettri in carne e ossa. Indagando sulla scelta di soggetti così inusuali, raccapriccianti, di sicuro poco adatti a rallegrare un ambiente domestico odierno, scoprivo che i quadri di Jean-Christophe Fischer in esposizione appartengono a una serie in memoria delle gueules cassées, letteralmente “i musi spaccati”, ovvero i soldati sopravvissuti alla Prima guerra mondiale ma sfigurati da gravi ferite, soprattutto al livello del viso.

La Grande guerra, infatti, di cui proprio in questo periodo ricorre in Francia il centenario dell’armistizio, avvenuto l’11 novembre 1918, non solo provocò la morte di 9 milioni di soldati, caduti sui campi di battaglia sparsi in tutta Europa o deceduti in ospedale o nel letto di casa a seguito delle lesioni e i traumi subiti, ma fu anche la triste madre di un popolo di mutilati e invalidi, uomini per lo più compresi tra i 19 e i 40 anni che una volta tornati dal fronte si trovarono nell’incapacità fisica e mentale di riprendere la vita lasciata prima di partire.
A chi un proiettile aveva portato via un occhio, a chi un orecchio ; a chi l’esplosione di una granata aveva spappolato un braccio, a chi una gamba ; a chi le profonde ustioni da lanciafiamme avevano deturpato porzioni importanti del corpo. A chi, invece, lo stress estremo della vita da trincea aveva fatto perdere il senno. Le bombe, i cannoni a lunga gittata, le raffiche di mitragliatrice, i gas asfissianti e il micidiale filo spinato… quando si tratta di concepire strumenti per uccidere e causare devastazione, l’ingegno umano è in grado di offrire il meglio di se : anche a costo di ritrovarsi, a guerra finita, con enormi cumuli di cadaveri da seppellire e una tragica mancanza di manodopera.

Tra le vittime insigni della Prima guerra mondiale, poi, gueule cassée per eccellenza, figura uno dei massimi protagonisti della letteratura d’inizio ventesimo secolo, il poeta francese Guillaume Apollinaire, al quale la mostra di Jean-Christophe Fischer rendeva esplicitamente omaggio. L’autore delle celebri liriche contenute nelle raccolte Alcools e Calligrammi, partito entusiasta per il fronte occidentale credendo di scoprirvi il più grande spettacolo del mondo – si trattava pur sempre di una testa matta – troverà, sul campo di battaglia, vedendo bombe piovere ovunque e corpi saltare in aria, soltanto orrore e morte, nonché l’ispirazione per struggenti componimenti poetici. Gravemente ferito al capo nel marzo 1916, Apollinaire andrà ad alimentare il lungo elenco degli invalidi di guerra, spirando poco dopo l’armistizio del 1918 : il suo fisico debilitato non riuscirà a sopravvivere alla terribile epidemia d’influenza spagnola, responsabile in quegli anni di una strage di proporzioni mondiali.

Jean-Christophe Fischer
2013. Acrilico su tela
Pensando a Guillaume Apollinaire, alla famosa fotografia che lo ritrae bendato alla testa ma con lo sguardo vispo e quasi sorridente, osservavo i foschi dipinti di Jean-Christophe Fischer presenti alla mostra. Da dove vengono, mi domandavo, a quale fantasia, a quale incubo, a quale vecchio film del terrore sono ispirati questi inquietanti personaggi ? L’artista sostiene di averli concepiti d’istinto, senza alcun riferimento a immagini fotografiche o filmati risalenti alla Grande guerra. Il suo non è stato un esperimento di rielaborazione creativa su del materiale visivo già esistente.
Un bel giorno di qualche anno fa si è semplicemente messo a dipingere una forma astratta, un aggregato di colori, e man mano che la tela si riempiva di blu, di grigio e di nero Jean-Christophe Fischer iniziava a capire: i tratti cromatici da lui prodotti in maniera quasi casuale erano le basi, i primi, vaghi connotati di una figura umana. O per essere più precisi, una figura cui di umano restava ben poco, una figura disumanizzata.
Scavando poi nella memoria collettiva della propria terra, nell’inconscio che accomuna gli abitanti della Meuse, dipartimento della regione francese della Lorena che nel periodo 1914 – 1918 fu teatro di violentissimi scontri, tra i quali l’immensa battaglia di Verdun, l’artista concedeva all’angosciante creatura un piccolo posto nella Storia, il ruolo di superstite nella grande tragedia della Prima guerra mondiale. Nasceva così, da un ricordo ancestrale, il primo ritratto di milite ignoto, poi il secondo, poi il terzo, poi il quarto, poi il quinto… Nasceva così la lunga serie delle gueules cassées, visi deformati dalla brutalità della guerra prima che dall’incontenibile estro di un artista contemporaneo.
L’onore delle armi
Fieramente l’armata sconfitta
rassegnava alla stella avversaria
comandante con spada stillante
distinte piume di aquila ferita,
rapace stanco, privo di nostalgia
ciglia pietrificate seccate dall’orgoglio
fascio di nervi acciaio temperato
cuore sospeso al cappio del coraggio
fluttuando all’ombra della bandiera amata.
Sacerrima emozione, valore conclamato
lo scontro generoso tra combattenti audaci
per ideali morti nell’elmetto.
Luttuosi corvi guadavano il corteo
tacendo ogni sardonico gracchiare
rollando lievi e incuriositi il capo
al roboante vulcanico comando:
-“ PRESENTAT’ARM! “
Il nostro mondo, senza assoluzione.
I miei complimenti più sinceri! post realmente interessante
ti mando un caro saluto e un augurio di un felice fine settimana
Adriana