Al salone di tatuaggi THE INK FACTORY

Sono arrivato alla fiera THE INK FACTORY di Lione quasi saltellando, la testa leggerissima, senza avere la più pallida idea di dove mi sarei cacciato. Per me, vi confesso, questo evento di tre giorni dedicato al mondo dei tatuaggi era più un pretesto per fare un giro in città e vedere facce nuove che l’occasione d’appagare una curiosità erudita, pertanto tutte le menate intellettualistiche che solitamente mi accompagnano stavolta le avevo lasciate a casa.

I tatuaggi, del resto, non li avevo mai considerati quali vere opere artistiche : va bene il discorso della body art, l’arte che utilizza il corpo umano come mezzo d’espressione o linguaggio, ma i ghirigori che nei mesi più caldi compaiono disegnati su schiene e caviglie abbronzate mi erano sempre parsi un semplice fenomeno di moda. Roba da marinai o galeotti, per dirla con le parole di mio padre, divenuta negli ultimi anni il simbolo di un ribellismo adolescenziale fuori tempo massimo : un vezzo decorativo per ragazzine o celebrità televisive.

Quando mi sono presentato all’ingresso della Sucrière, lo spazio espositivo che ha ospitato il salone THE INK FACTORY dal 13 al 15 aprile scorso, ho capito in fretta che aria tirava ; è bastato guardarmi attorno per rendermi conto del pubblico che frequenta questo tipo di eventi. Qualche marinaio, pochi galeotti, parecchi motociclisti e rockettari di vecchia e nuova generazione, due o tre fricchettoni, e un discreto numero di ragazzine (ma le ragazzine non guastano mai : loro almeno non mordono). Delle celebrità televisive, invece, neanche l’ombra. Tutti, a ogni modo, dal cinquantenne barbuto vestito con giubbotto di cuoio alla squinzia scollacciata, tutti orgogliosi di mettere in bella mostra i loro corpi tatuati. E io, pesce fuor d’acqua, abbigliato con un maglione di lana a maniche lunghe e un paio di jeans : facile sotterfugio per nascondere una pelle bianca come un foglio appena uscito dalla cartiera.

L’interno della Sucrière, scoprivo una volta entrato, era per l’occasione strutturato come un qualsiasi altro evento fieristico, i due piani dell’antico zuccherificio lionese erano ritagliati in tantissimi piccoli stand ordinati e giustapposti, ognuno ospitante uno specifico espositore. A parte qualche produttore di creme dermatologiche e accessori, si trattava per lo più di studi di tatuaggi : a questo raduno, infatti, erano invitati quasi 140 tatuatori da tutto il mondo.

Qualcosa di non troppo dissimile da un salone d’arte contemporanea, mi sembrava in un primo momento il posto in cui ero capitato, con la differenza che stavolta non si vendevano quadri o sculture ma disegni indelebili realizzati sulla pelle seduta stante. Tuttavia, osservando più da vicino quello che accadeva negli stand, e ponendo domande agli altri visitatori scorrazzanti per i corridoi – in questo tipo di situazioni metto da parte la timidezza – iniziavo a farmi un’idea più precisa di che cosa è veramente un tatuaggio, e di chi sono quei misteriosi personaggi che del tatuaggio hanno scelto di fare la propria professione.

La parola “tatuaggio”, a leggere qualche appunto storico, deriverebbe dal nome polinesiano tatau, letteralmente “marchio fatto sulla pelle”, ma l’origine geografica di questa pratica ancestrale è ancora incerta. Il più antico tatuaggio finora conosciuto viene individuato sul corpo mummificato di un cacciatore neolitico, rivenuto sulle Alpi italiane nel 1991 : piccoli segni stilizzati, ottenuti dall’iniezione di pigmenti sotto l’epidermide e localizzati al livello delle articolazioni, avevano per l’uomo preistorico uno scopo terapeutico, servivano a curare l’artrosi. Tracce di decorazioni tatuate compaiono però su mummie di epoche diverse, da quelle risalenti all’Antico Egitto agli esemplari più recenti trovati in Asia centrale e datanti il VI secolo a.C.

Nelle maggior parte delle civiltà in cui si manifestò, comunque, il tatuaggio ebbe un ruolo di distinzione, se non addirittura di marginalizzazione. Nel migliore dei casi, identificava le persone appartenenti a una certa classe sociale, a una certa tribù, oppure i seguaci di un preciso culto religioso ; nel peggiore, invece, marchiava in maniera indelebile i prigionieri e gli schiavi.

La nascita del tatuaggio moderno la si deve a un celebre inventore e uomo d’affari, padre del fonografo e della lampada a incandescenza, l’americano Thomas Edison. Da una delle tante invenzioni di Edison, infatti, la penna elettrica brevettata nel 1876, Samuel O’Reilly trasse ispirazione nel 1891 per progettare la prima macchina per tatuaggi, ossia un dispositivo che permetteva d’introdurre l’inchiostro nella pelle grazie a un ago messo in moto da una tecnologia a impulsi rotatori. Di lì a poco, in Inghilterra, Thomas Riley avrebbe sostituito la tecnologia a impulsi rotatori con un sistema di bobine elettromagnetiche, creando il prototipo della macchina per tatuaggi tuttora utilizzata.

In estremo oriente, tuttavia, in Giappone e in altre isole del Pacifico, diversi tatuatori continuano a fare uso delle tradizionali bacchette di legno manuali : una tecnica, questa, che permette di iniettare i pigmenti più in profondità e allo stesso tempo causare meno dolore cutaneo. Dopo esser rimasto confinato perlopiù a gruppi sociali minoritari quali carcerati, veterani di guerra e artisti circensi, negli anni ’70 del ventesimo secolo il tatuaggio si è diffuso tra motociclisti e punk, aprendosi poi a un pubblico decisamente più ampio.

All’alba del nuovo millennio, infatti, il mondo occidentale si è lasciato infatuare da questa antichissima tecnica di decorare il corpo umano, non più considerata un indizio di demarcazione etnica o sociale ma una maniera come un’altra di esprimere la propria personalità, onorare il ricordo di una persona scomparsa o di un evento importante oppure fare dell’innocua provocazione. In Francia, paese in cui vivo, si contano 7 milioni di persone tatuate, circa un decimo della popolazione nazionale.

Al di là dei numeri, al di là delle mummie, al di là di Edison e compari, più girovagavo per il salone THE INK FACTORY e più m’imbattevo in una moltitudine di personaggi che se incontrati altrove, in un contesto diverso, forse per strada o in un centro commerciale, mi avrebbero sicuramente colpito per la loro stravaganza. Visi ornati da enigmatici motivi tribali, lobi perforati da orecchini spessi come maccheroni, schiene, braccia, gambe colorate di nero, di rosso o di blu, uomini e donne distesi su lettini o seduti piegati in avanti, alcuni quasi completamente nudi, contenti di sottoporsi al lungo e complesso processo di tatuatura.

Una ragazza, ricordo, accovacciata su un lettino basso, il volto sofferente nascosto a malapena dalle mani tremanti e il dorso ricoperto da un grande ricamo blu non ancora finito, un tatuaggio lasciato in sospeso : troppo doveva essere il dolore provocato dall’ago intinto d’inchiostro nella sua pelle giovane e liscia, troppo anche per l’autore del mirabile ricamo, che vista la situazione aveva deciso d’interrompere il lavoro e concedere una pausa alla cliente.

In tutto questo, capirete bene, nel grande via vai di gente tatuata, nella grande mescolanza di stili e colori dei tatuaggi esibiti (dai simboli tradizionali come il cuore o il teschio alle moderne illustrazioni iperrealiste, passando ovviamente per i sempiterni temi orientali), quello strano ero io : io e la mia povera aria dell’uomo qualunque che per una volta in vita sua prova a mettere il naso fuori dal circondario.

La giornata stava comunque trascorrendo allegramente, come una felice scampagnata domenicale, ciò che però mi riusciva difficile era poter finalmente scambiare quattro chiacchiere con uno dei tanti tatuatori presenti al salone. Chi era impegnato con il proprio mestiere, chi era a mangiare un panino ai tavolini esterni – luogo in cui sono riuscito a rubare una foto a Tin-Tin, leggendario tatuatore di Pigalle – chi invece non parlava una lingua da me conosciuta. L’opportunità mi si è presentata nel tardo pomeriggio, quando l’evento iniziava a volgere al termine e gli stand poco a poco si svuotavano della folla di visitatori, lasciando i tatuatori soli e sfiniti dopo la giornata di lavoro : meno restii, forse, a sollevare il velo di mistero che ammanta la loro professione e parlarmi di come s’imparano le tecniche di tatuaggio.

Per diventare tatuatori, oggi, non esistono scuole o corsi specialistici, tutto avviene secondo il tradizionale apprendistato. Si bussa alla porta di un negozio di tatuaggi, ci si presenta, si mostrano i propri disegni, e se questi vengono apprezzati dal maestro di bottega s’inizia il lungo periodo di formazione. Un percorso che parte dai semplici compiti che toccano a un qualsiasi apprendista artigiano, la pulizia della locale di lavoro, il riordino degli attrezzi, l’osservazione dei professionisti all’opera… e arriva finalmente a compimento con la realizzazione del primo tatuaggio, solitamente sulla propria stessa pelle. Per diventare un buon tatuatore ci vogliono mediamente dieci anni di pratica.

Ad avermi sorpreso è la grande eterogeneità delle persone che un giorno scelgono d’intraprendere questo tipo di carriera ; non si tratta, come inizialmente supponevo, di pittori o disegnatori usciti dall’accademia di belle arti. Sono, invece, nella maggioranza dei casi, degli autodidatti del disegno dediti al culto del tatuaggio : si comincia con il farsi tatuare da altri, e si diventa poi tatuatori a propria volta. Veri artisti o raffinatissimi artigiani, i tatuatori contemporanei ? La questione è ancora aperta, e penso che per decidere tra le due alternative non mi resti che sottopormi alla prova del fuoco : farmi un bel tatuaggio sul petto, magari un teschio o la faccia di qualche personaggio famoso. Che ne dite di Jovanotti ?

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5 risposte a "Al salone di tatuaggi THE INK FACTORY"

  1. Va bene… niente “menate intellettualistiche”, piuttosto un’occhiata alla copertina dell’album “Indelibly Stamped” dei Supertramp ( 1971 ): commovente testimonianza del passato trasgressivo del tatuaggio…

    1. Bellissima copertina e bellissimo tatuaggio ! Un giorno o l’altro dovrei scrivere un post sulle copertine artistiche degli album musicali, qualche anno fa avevo trattato della banana disegnata da Andy Warhol per i Velvet Underground…

  2. Bellissimo articolo! Anche io sono affascinata dal mondo dei tatuaggisti! Ce ne sono alcuni che definisco dei veri e propi artisti, perchè sanno creare dei disegni che paiono veri! Io non ne ho mai avuto uno perchè sono un pò una fifona, ma mi è capitato di disegnare dei soggetti per amici che poi li hanno realizzati. E tu alla fine te lo sei fatto? 🙂

    1. Ti ringrazio, Titty 🙂 No, alla fine non mi sono fatto tatuare. La fiera mi ha fatto scoprire il mondo stravagante dei tatuatori – veri e propri artisti – ma la mia pelle non l’avranno !

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