Non mi piace raccontare storie d’amore : ho infatti l’impressione di raccontare sempre la stessa cosa. Lo stesso incontro, lo stesso sguardo, le stesse parole, le stesse promesse, gli stessi capricci, gli stessi inganni… e alla fine, esaurita la pazienza da parte di entrambi, la stessa irrevocabile porta che sbatte.
Mi sentirei allora un impostore, un ridicolo impostore, se dicessi che quella vissuta da Marina Abramović e Ulay fu una storia diversa, insolita, unica ; una storia terminata ufficialmente nel 1988 ma proseguita di nascosto, quasi all’insaputa dei suoi stessi protagonisti, fino alla morte di lui il marzo dello scorso anno. Eppure, malgrado i cliché di cui è ammantata, malgrado il tanto parlare che se n’è già fatto, credo che la loro relazione meriti comunque di essere raccontata.
Quando s’incontrarono per la prima volta, nel novembre del 1975 presso la galleria de Appel di Amsterdam, la Abramović era una giovane artista jugoslava diplomatasi all’Accademia di Belgrado venuta a esibirsi in una serie di performance e Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, un fotografo autodidatta originario della Germania di pochi anni più grande, un trentenne con capelli lunghi e barba incolta ancora in cerca di se stesso. Si era lasciato alle spalle il proprio paese di nascita – e la piccola famiglia che vi aveva già costruito – quale un carcerato in fuga dall’isola del Diavolo : a tormentarlo, pensate, era un sentimento allora molto diffuso tra le giovani generazioni tedesche, il senso di colpa per le atrocità perpetrate dal regime hitleriano, e lui, figlio di un gerarca nazista, percepiva il peso della Storia come oltremodo gravoso.
Tra i due, tra la performer e il fotografo, nacque subito una forte complicità : accomunati dallo stesso spirito un po’ pazzoide, nonché dalla stessa data di nascita (il 30 novembre, anche se di anni diversi), decisero di prendere e partire, decisero di mettersi in viaggio insieme. Era, quella, l’epoca immediatamente successiva alla rivoluzione hippie, e la voglia di libertà, di spazi aperti, di vita itinerante ancora spirava nell’aria.
Così, vagando di città in città, in un vecchio furgone della polizia olandese adattato ad alloggio di fortuna, i due innamorati girarono l’Europa. Poco importavano le scomodità, il freddo, il cibo frugale rimediato grazie alla vendita degli scatti Polaroid di Ulay ; poco importava cosa la gente pensasse di loro. A trainarli erano l’entusiasmo giovanile, una concezione dell’esistenza ispirata allo spiritualismo asiatico, e soprattutto una solida intesa artistica. Accolti infatti in gallerie d’arte o spazi culturali, Marina Abramović e Ulay realizzarono in coppia una successione di performance intitolata Relation Works.
Queste esibizioni, improvvisate sul momento e prive di qualsiasi simulazione, riflettevano la loro maniera stravagante di stare al mondo, la loro inclinazione al movimento permanente, la loro incontrollabile energia. Posti l’uno di fronte all’altra, lo sguardo severo, quasi arrabbiato, i due performer emettevano un suono vocale ininterrotto, un verso insensato che con il passare dei minuti diventava un urlo, così da sgolarsi a vicenda fino allo stremo delle forze ; oppure, dandosi la schiena e con i capelli legati tra di loro, sedevano diverse ore in posizione statica, senza parlare, arrivando al completo esaurimento ; oppure, iniziativa ancora più audace, stavolta tenuta a Bologna, si posizionavano totalmente svestiti all’ingresso di una galleria d’arte, vicinissimi l’uno all’altra, in modo che i visitatori per entrare fossero obbligati a strusciarsi ai loro corpi nudi.
Sebbene il pubblico li considerasse talora come dei meri provocatori, e certa critica negasse la sostanza artistica dei loro exploit, Marina Abramović e il suo compagno intendevano indagare differenti aspetti dell’esistenza umana, anzitutto il complesso rapporto uomo/donna, e questo mettendo a durissima prova le proprie capacità fisiche e mentali. Si sottoponevano a sforzi micidiali, creavano situazioni pericolose, sperimentavano imprese che nessuna persona sana di mente avrebbe volontariamente tentato, sempre con lo scopo di sfiorare il limite della sopportazione. E in linea con la loro condotta minimalista, votata quasi al pauperismo, riducevano il più possibile i propri strumenti d’espressione creativa : niente colori, niente pennelli, nessun ricorso a oggetti estranei alla vita di due cuori vagabondi ; utilizzavano ciò che gli era immediatamente disponibile, il semplice corpo umano.
La loro fama, quella di artisti eccentrici e radicali, dallo stretto circuito underground iniziò a diffondersi anche tra commissari d’esposizione e istituzioni museali, al punto che tra il 1981 e il 1987 i due furono invitati a eseguire un ciclo di performance che li fece conoscere in tutto il mondo. Nightsea Crossing, traducibile dall’inglese in italiano come “traversata notturna del mare”, consisteva in un percorso composto da ventidue tappe sparse in più continenti. A ogni tappa, generalmente tenuta all’interno di un museo, la Abramović e Ulay rimanevano diverse ore, talvolta anche più giorni di seguito, seduti alle estremità opposte di un tavolo, fermi, silenziosi, ieratici, in uno stato di profonda meditazione. Tra i due spesso non si trovava nulla, solo lo spazio vuoto attraversato dai loro sguardi assorti, ma in alcune occasioni veniva lasciato sul tavolo un piccolo manufatto esotico come un giavellotto, un boomerang, oppure una minuscola scultura d’elefante.
Con Nightsea Crossing la coppia di performer raggiungeva gli antipodi dell’arte spettacolo, esibiva senza fronzoli la pura forza di volontà, eppure il pubblico che assisteva all’esibizione ne rimaneva sorprendentemente colpito. Passeggiare per un museo e trovarsi al cospetto di un uomo e una donna concentratissimi a non fare niente, d’altronde, non era certo un’esperienza che capitava tutti i giorni. Fu tuttavia durante questo ciclo di performance che il rapporto tra Marina Abramović e Ulay cominciò a incrinarsi.
Impegnati a trascorrere molto tempo immobili, pensosi, fronteggiandosi a vicenda, i due artisti si resero conto poco a poco delle importanti differenze che li separavano : differenze fisiologiche, legate alla capacità propria di ognuno di resistere al dolore, e soprattutto differenze caratteriali, accentuate dalla diversa maniera che avevano l’uno e l’altra di reggere il peso del successo. Erano diventati delle celebrità, degli idoli, ovunque si parlava delle loro strabilianti prestazioni, e questo violava l’ideale anarcoide che aveva Ulay della pratica artistica. Lui voleva rimanere nel felice anonimato, rimanere libero, mentre per lei la notorietà non era altro che una normale conseguenza del percorso creativo che avevano intrapreso insieme.
Per sancire la loro separazione sentimentale e artistica, i due decisero allora di lanciarsi in una grande performance, l’ultima che avrebbero fatto in coppia : The Lovers : The Great Wall Walk. Percorrere a piedi l’intera Grande Muraglia era un progetto che da anni gli frullava nella testa, ma a causa dell’opposizione del governo cinese avevano sempre dovuto rinviarlo. Mai nessuno aveva osato tale prodezza, e l’idea che i primi a realizzarla fossero degli stranieri andava poco a genio ai dirigenti di Pechino. L’autorizzazione fu concessa proprio in quel periodo, pertanto Marina Abramović e Ulay si misero presto in cammino : partiti ciascuno da un’estremità opposta della Muraglia, contavano d’incrociarsi a metà strada e lì dirsi addio.
E così difatti avvenne, dopo novanta giorni d’intensi saliscendi nel continente asiatico, percorsi 2500 km per parte, i due s’incontrarono in un punto disperso tra le montagne, e versando abbondanti lacrime misero fine alla loro relazione. Era il 1988, il capolinea di un’epoca : i figli dei fiori erano ormai diventati adulti, i capelli lunghi non andavano più di moda, John Lennon era morto da un pezzo, e a breve, l’anno successivo, la caduta del muro che divideva le due Germanie avrebbe provocato uno dei più gravi sconvolgimenti del secolo. Era il 1988, e dopo dodici anni di follie, una delle più travolgenti storie d’amore dell’arte contemporanea volgeva al termine.
Grazie, grazie, Riccardo. Una storia bellissima, sino ad oggi per me sconosciuta. Scritta come sempre in punta di piedi, quasi a non voler far trasparire alcunché di te, cercando di essere
sempre lo scrittore invisibile per dare spazio solo alla tua storia. Ogni volta imparo qualcosa di nuovo e mi rendo che se anche fino ad oggi sono vissuta nella mia soggettività, è invece l oggettività la reale dimensione della esistenza. Grazie, grazie ancora.
Grazie a te, Rita, del commento positivo. Mi fa molto piacere che leggi il blog 🙂
Bella storia , originale ed intensa. Il finale degno di una coppia stravagante.