E’ la New York dei primi anni ’80. L’epoca in cui Central Park è poco raccomandabile per fare del jogging serale, tra gli yuppie di Wall Street sono tornate di moda le bretelle e il giovane Barack Obama sta studiando alla Columbia University. La musica rap non ha ancora assunto i connotati di un genere di esportazione, ma i muri dei palazzi già da qualche anno sono stati colorati da quel fenomeno a metà strada tra l’arte selvaggia e il vandalismo metropolitano. La Grande Mela si sta riempiendo di graffiti urbani. Ora però bando ai preamboli, andiamo al sodo.
Nella città che non dorme mai la metropolitana funziona 24 ore su 24, e la notte del 15 settembre 1983, poco dopo le 2:00, il poliziotto John Kostick sta facendo la ronda alla fermata di First Avenue quando pizzica un giovane uomo di colore scrivere su un muro delle sigle a pennarello e bomboletta spray. Si chiama Michael Stewart, ha 25 anni e vive a Brooklyn assieme ai genitori. E’ un artista, o quantomeno aspira a diventarlo. L’arresto è facile, anche se siamo in America questa volta niente bang bang. Kostick e Stewart salgono in superficie e sono presto raggiunti dal furgoncino della polizia, su cui l’arrestato viene caricato. Direzione : District 4. Da lì in poi la realtà si fa opaca.
La versione delle forze dell’ordine vuole che Michael Stewart, salito sul furgone, vada fuori di testa e inizi a reagire in maniera aggressiva, tanto che giunti al distretto di polizia i poliziotti si vedano costretti a ricorre alle buone maniere per legargli forzatamente polsi e caviglie e condurlo al Bellevue Hospital. Peccato che la maniera di intendere le buone maniere da parte della polizia di New York non coincida con quella di San Francesco. Stewart arriverà all’ospedale già in coma e ci resterà fino al 28 settembre, giorno della sua morte. La prima autopsia rivelerà che le contusioni al viso e le escoriazioni ai polsi non siano direttamente legate al suo decesso, apparentemente imputabile a un arresto cardiaco, ma esami successivi parleranno invece di morte per strangolamento. Ennesimo caso di abuso delle buone maniere.
I responsabili dell’arresto saranno scagionati in sede processuale nel novembre del 1985, parte della cittadinanza esprimerà la propria indignazione con manifestazioni pubbliche. Tra gli indignati ve n’è uno particolarmente attivo. Si chiama Keith Haring, ha 27 anni ed è uno dei più grandi graffitisti (o si dice graffitari ?) al mondo. Se il suo nome vi dice poco, avete in mente quei dipinti giganteschi e dai colori psichedelici raffiguranti una miriade di omini stilizzati ? Sono opera di Keith Haring. Haring è un artista particolarmente sensibile ai problemi sociali, e il caso di Michael Stewart gli è di ispirazione per una grande tela di denuncia della violenza razziale.

Keith Haring
1985. Acrilico e olio su tela
Michael Stewart – USA for Africa ha la particolarità di essere una delle poche opere del graffitista americano in cui il personaggio rappresentato non è un anonimo ma un individuo dal volto definito ed espressivo. Al povero Michael Stewart, ritratto come Dio l’ha fatto, viene tirato il collo come una gallina da delle forti braccia di un uomo bianco, mentre una mano verde (il colore dei dollari, c’è pure il simbolo) si protende minacciosa per stringerlo. Keith Haring tuttavia non si limita a commemorare la morte del giovane afroamericano. La sua opera si carica di rimandi simbolici per elevarsi a un livello superiore : dal particolare all’universale.
Come lascia intendere il titolo stesso, tra gli Stati Uniti e l’Africa, il Sud Africa nello specifico, viene tracciato un micidiale paragone. Nel mondo spaccato a metà, i due paesi sono divisi da un fiume di sangue che annega le persone di tutte le etnie, bianchi, neri e gialli. E mentre la violenza razziale miete le sue vittime, così a Johannesburg come a New York, testimoni consapevoli si coprono gli occhi per fingere di non vedere e croci religiose cadono al contrario. E’ l’Apocalisse. Forse una piccola colomba con un ramo di ulivo nel becco riuscirà a sfuggire al diabolico serpente ?